domenica 31 luglio 2011

La cancha, il mercato più vasto di Bolivia


Bolivia/5 - Non c’è granché d’interessante a Cochabamba, salvo che tutto qui appare gradevole.

Non si è ancora sull’altipiano dei 4 mila metri di Potosì e La Paz, ma non si è nemmeno nella piana sub amazzonica di Santa Cruz. Il clima è più che gradevole, fa fresco di sera, ma di giorno si sta benone, anche in pieno inverno. La gente è mista, nel senso che è multietnica: ci sono i quechua del Sud e gli aymara del Nord, i guarani dell’Ovest, ci sono i bianchi e ci sono gli indios, ci sono stranieri e ci sono apolidi. Il centro è abbastanza ordinato, il traffico scorre tutto sommato assai regolare, le bancarelle non invadono tutto, i mercati sono simpatici e colorati, le donne, vere colonne delle famiglie boliviane dove nei fatti vive un rigoroso matriarcato, vendono qualsiasi cosa per la strada, debbono far mangiare i loro piccoli. Le nonne aymara, con le loro gonnelline al ginocchio, i polpacci sottili e i bacini ampi, ancheggiano buffamente nella strada, portando il loro cappellino a bombetta sulla testa dai capelli neri, senza un filo di bianco. La piazza principale, Plaza des armas, alberata e vivace, testimonia un’integrazione in fondo ben riuscita, mentre la gente discute, gioca a scacchi, si gode la frescura, sorbisce qualche suco. La Cattedrale metropolitana sta colonialmente semplice, quasi banale, ma la gente la ama nella sua essenzialità, senza troppi sfarzi. Sulla piazza dà anche la chiesa dei gesuiti, mentre appena a ridosso dello slargo stanno le chiese domenicana, salesiana e francescana, a testimonianza della “spartizione” ecclesiale tra i massimi ordini religiosi presenti nel Paese. La Chiesa è comunque presentissima, con più di 150 istituzioni, impegnate sia nel sociale che nell’evangelizzazione. Una corona di montagne protegge la città, qua e là spruzzate di neve, ma sempre dolci nel loro ergersi. Solo il Cristo redentore della collina … sembra voler imporre la sua presenza.

Ma Cochabamba va famosa anche per il suo mercato, che è proprio vasto. Si estende per nove quadra a nord della stazione degli autobus: qui partono e arrivano mezzi in più o meno buono stato che vanno anche in decine di ore in tutta la Bolivia, per pochi euro, e sono i mezzi di trasporto preferiti dai boliviani. È pomeriggio, e la luce è veramente forte, insolita, radente, chiara, troppo luminosa, troppo bianca, troppo sfacciata. Mi fanno male gli occhi. Poco male, meglio non esagerare, basta che mi guardi attorno per vedere la povertà, anzi la miseria di tanta gente che tutto mi passa e mi dico che non ha nessun senso lamentarsi.

Il mercato è immenso, e come in tutto il mondo, dove ancora il capitalismo non è arrivato con le sue schiere di liberi mercati, le botteghe si raggruppano secondo la merceologia: i calzolai, i commercianti di vestiti, quelli di frutta, quelli di carne, quelli di pesce, ma secondo un ordine che mi sfugge totalmente, perché accanto ai pescivendoli scopro i carpentieri e accanto ai verdurai si trova chi smercia… refurtiva! L’angolo più interessante dell’intero mercato è quello che riunisce i commercianti di strumenti votivi indigeni, aymara e quechua in particolare. Vi si trovano sorte di altarini monouso con appropriate offerte, minuscole casette e modellini di coppie separate, pesci e frutta e ogni altra sorta di reminescenze e ricordanze. Alzo lo sguardo, e mi ritrovo di fronte ala macabra scena di una sorta di conigli mummificati: mi dicono che si tratta di piccoli lama essiccati, che vengono usati come sacrificio animale nelle varie cerimonie delle religioni tradizionali. Ma il mistero che trapela da queste forme apparentemente superstiziose e retrive di religiosità m’interrogano, non posso giudicare in fretta.

In tutti i casi c’è grande dignità nei commercianti, che per l’80 per cento sono donne, tutte o quasi col loro cappellino, tutte colorate, tutte decise anche se riservate. E, incredibile dictu, c’è un certo silenzio, nessuno grida, nessuno cerca di attirare l’attenzione degli avventori possibili, se non sottovoce! Dignità.

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