mercoledì 16 settembre 2009

Karachi dove si muore di fame

Una ventina di morti a Karachi durante una distribuzione di farina. La fame colpisce ancora in una città straordinaria e terribile. Reportage (era il 2005) in uno dei centri di Edhi Abdul Sattar, "Madre Teresa dei musulmani", dove quotidianamente si distribuiscono riso e farina.


Edhi Home, o dove la disperazione si rifugia, dove l’abiezione e la déchéance raggiungono il livello più basso raggiungibile, lasciando l’uomo o la donna nella situazione di rinunciare alla vita o di affidarsi a mani pietose. È una sorta di luogo di primo soccorso – ma anche di ultimo, perché qui c’è pure l’obitorio –, da cui poi si viene indirizzati nei luoghi più indicati per affrontare le diverse emergenze dell’uno o dell’altro. Si arriva soli, di solito, la compagnia non è buona compagna del male, ma solo del bene. Mucchi di riso e farina ovunque, qui si sfama la gente che non ha nulla.
In un corridoio – i soliti corridoi dei luoghi di Edhi, che sembra voler con essi dare alle persone che si fanno analizzare il senso della provvisorietà, mentre la stanza diventa la soluzione, il sentimento di casa, di accoglienza, di stabilità – si allungano dapprima mocciosi che non avranno dodici anni: tutti alcolizzati o drogati, "fatti" comunque di qualcosa con cui hanno cercato di evadere dalla loro esistenza. C’è il ragazzino che si vende ai pedofili, tutto azzimato e coi capelli lustri, ma con uno sguardo dilatato che non riesce a posarsi su nulla. Il medico che ci accompagna sostiene che in quel piccolo corpo ci sono tutte le infezioni e le malattie contagiose che si conoscano. Entrea ed esce, non ha nessuno, non vuole restare nelle case di Edhi perché ama troppo la libertà. E c’è invece il ragzzetto con lo sguardo altrettanto perso, ma per via di una brutta crisi epilettica che l’ha colpito in mezzo alla strada, cioè nella sua casa.



Un altro ragazzetto fa lo spavaldo coi dottri, ma ha pochi giorni dinanzi a sé per una epatite che l’ha reso giallo e senza difese immunitarie. Un educatore lo apostrofa, vorrebbe che se la giocasse ancora la vita. Poi mi si rivolge: «Se sapessi quante miserie ha dovuto subire, penso che esulteresti nel sapere che è riuscito a raggiungere i 13 anni. Dio lo ama, è l’unica consolazione». C’è poi il pronto soccorso vero e proprio, cioè uno stanzone nel quale vengono ospitati in letti puliti tubercoilotici in crisi polmonare acuta, diabetici in coma glicemico, malati in attesa di essere trasferiti in qualche centro ospedaliero. Comunque gente sola o abbandonata, gente che non ha più nulla né nessuno. La solitudine di questa gente comincia a prendermi alla gola, e a convincermi che Edhi ha fatto la scelta giusta nella vita, soccorrendoli. Il mondo è un po’ più umano sapendo che ci sono luoghi come quelli che stiamo visitando in questi giorni.

Ma il peggio deve ancora arrivare. Chiusi con una grata guardata a vista da uomini armati che non farebbe piacere incontrare di notte in qualsivoglia città del mondo, ma che in fondo al cuore hanno un fortissimo senso della pietà umana, ecco cento e passa uomini maggiorenni, allineati sulle panchine in muratura di un lungo corridoio, che aspettano la loro dose di metadone, o di qualcosa di simile, che i medici di Edhi gli impartiscono nelle crisi di astinenza e nella disperazione della mancanza. Questi figuri hanno ancor meno degli altri: soffronto di solitudine e di mancanza. Di tutto. Inveiscono contro di noi, come bestie ferite in gabbia, oppure cercano di elemosinare una raccomandazione, chissà pure una bustina di qualcosa di forte. Uno di loro si alza minaccioso, ha un occhi mezzo di fuori. Una manganellata lo tramortisce sul cranio, ma si rialza e sputa sangue. Poi la stessa guardia che l’ha steso lo aiuta a risollevarsi e a riprendere il suo posto nella lunga teoria della abiezione infinita. Gli dice di sta buono, e questo gli stringe la mano guantata - questione di infezioni - come fosse quella del padre.

Una visita che non può non concludersi nel luogo dove la morte è sovrana. Apparentemente, perché anche in questo luogo che decreta la "fine del gioco" - parlo ovviamente dell’obitorio, uno dei due della città di Karachi - gli amici di Edhi ridanno dignità ai cadaveri, ripulendoli o ricomponendoli quando necessario, congelandoli in attesa di un riconoscimento e della susseguente sepoltura. Qui fu tenuto Daniel Pearl, il giornalista del Wall Street Journal ucciso da un gruppo impazzito di fondamentalisti indù mentre cercva segreti strani e poco chiari con un coraggio pari alla sua incoscienza. Bernard Henri-Lévi havoluto consacrargli un libro, un romanzo e un documento, qualcosa di poco chiaro e di molto ingannevole su una città e sulla sua gente. Entriamo nella cella frigorifera, non avevo mai visto tanti cadaveri assieme. Mi dicono che tuttavia sono pochi: ai tempi delle reciproche bombe sciite e sunnite, una seconda e una terza sala venivano trasformate in obitorio.



Chi vuole saperne di più, legga il libro: Lorenza Raponi e Michele Zanzucchi, "Metà di due rupie", San Paolo 2007, euro 14,00

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