giovedì 17 settembre 2009

Sanaa, c'entra l'Islam?


La vicenda della giovane marocchina Sanaa DAfani, ammazzata a Pordenone dal papà perché voleva andare ad abitare col fidanzato italiano. Attenzione alle bucce di banana del facile antislamismo primario. I problemi sono soprattutto culturali e di integrazione, non religiosi. Intervista sulla condizione della donna nel mondo musulmano all'algerina Leila Aslaoui, apparsa sul mio libro "L'Islam che non fa paura", apparso per i tipi della San Paolo.


Da un articolo apparso sulla stampa algerina nel settembre 1994: «Il portavoce del governo algerino, Leila Aslaoui, 49 anni, ha dato le dimissioni lunedì. La signora Aslaoui aveva manifestato nelle sue dichiarazioni ostilità nei confronti degli integristi. L’annuncio delle dimissioni arriva meno di una settimana dopo la liberazione dei capi del Fis, Abassi Madani e Ali Belhadj. Le dimissioni dal governo sono una pratica rara nella vita politica algerina». L’Algeria non manca di donne coraggiose.


Per intervistare l’on. Leila Aslaoui, già ministro della Gioventù e dello sport, magistrato e da qualche tempo anche scrittrice, esco da Algeri verso il Club des pins, una località a est della capitale dove, in un quadro naturale eccezionale, tra pinete senza fine e spiagge bianchissime, è cresciuto negli anni il centro residenziale più esclusivo del paese, con l’Hotel Sheraton e un paio di zone riservate a politici e alti funzionari dello stato. A Staoueli, in eleganti ma non sfarzose palazzine, vivono centinaia di famiglie di notabili algerini, per lunghi anni qui ridotti in stato di “quasi-prigionia” per via del terrorismo.


È in una decorosa abitazione, ornata coi ricordi d’una intensa vita politica, che incontro Leila Aslaoui, una donna sottile, dalle occhiaie profonde, toccata direttamente dalla carneficina che si è scatenata sull’Algeria tra il 1993 e il 1998: suo marito Mohammed-Réda, dentista, è stato ucciso da quattro “barbuti” il 17 ottobre 1994 nel suo studio professionale, a coltellate. Madame Leila ha una forza vitale straordinaria, uno spirito indomito, una calma lucidità che le fa dire cose di un coraggio insospettabile: ciò le viene con tutta probabilità dall’aver guardato negli occhi l’orrore.
«Il potere è paranoico e il popolo è schizofrenico – attacca –. Il potere non ascolta il popolo, e questo crea delle separazioni spaventose, che non promettono nulla di buono: non c’è cultura politica e democratica, ma solo una grande ignoranza. La gente è impermeabile al potere, pensa che tutti siano corrotti e lontani dalla gente: è una litania, una disperazione latente. In questo contesto l’Islam dà un’identità e una sicurezza che altrimenti non esisterebbe».

Leila Aslaoui apre il capitolo della memoria dolorosa: «Mio marito era una persona assai religiosa: perché l’hanno ucciso? Forse perché ero io a essere il bersaglio, ma non osavano attaccarmi in quanto ero una donna? È ingiusto che si facciano fuori coloro che lavorano per il popolo: mio marito lavorava in un quartiere difficile, un covo di fanatici. Gli avevo insegnato a sparare e aveva una pistola ufficialmente denunciata. Ma lui non voleva portarla con sé: “Non sono un violento – mi rispondeva –, e portare quest’arma mi metterebbe dalla parte della violenza”. Gli ho fatto notare che eravamo in guerra: ma lui ha affermato che non avrebbe mai ucciso qualcuno, e che se lo avesse fatto il rimorso lo avrebbe raggiunto ovunque. Se era scritto che doveva morire, sarebbe morto».

Madame Aslaoui sta per dare alle stampe una serie di novelle sulle donne algerine, sul velo imposto, sull’adozione vietata, sullo sfruttamento tollerato, sul divorzio ingiusto: sta aspettando l’accordo dell’editore, un po’ esitante perché il libro va indubbiamente controcorrente. «Sono profondamente credente – continua –. Sono musulmana anche se un po’ atipica. Non posso vivere senza Dio, che mi ha permesso di tener duro nella mia vita, nonostante tutte le prove che ho passato. Ma rispetto all’Islam, o per meglio dire, rispetto alle culture che si dicono musulmane ho un paio di problemi seri, che ho qualche timore a esprimere: il trattamento che esso riserva alla donna, in primo luogo. È scritto che gli uomini sono stati preferiti da Dio; perciò, anche se altri passaggi coranici affermano l’uguaglianza con le donne, negli obblighi e nei diritti la disparità di fatto esiste. Come musulmana non posso accettare queste disuguaglianze, come ad esempio avviene a proposito dei diritti all’eredità. Quando mi intrattengo con degli islamologi anche molto capaci, dico loro chiedendo lumi: “Una religione che afferma che, se le donne disobbediscono, l’uomo può punirle, rinchiuderle nelle loro stanze e persino bastonarle, io non l’accetto”. E questi signori mi rispondono: “Sì, ma attenzione, le percosse debbono essere leggere!”. Inaccettabile! Un imam marocchino e fondamentalista su una tivù europea ha avuto l’ardire di affermare che l’Islam ha sì detto che si può colpire la propria moglie quando è disobbediente, ma non bisogna che le percosse si vedano (questo fatto lo ha portato comunque a essere espulso nel 2004 dalla Francia). In quanto musulmana, e lo sono al 100 per cento, questa diversità di trattamento non mi stupisce; ma in quanto donna non posso accettare queste regole». Una pausa, poi riprende decisa: «Dicendo queste cose rischio che mi accusino di non essere musulmana; tuttavia rivendico il diritto, proprio in quanto una fedele, di dire che oggi tanti paesi islamici non assicurano sufficiente autonomia e libertà alle donne. È vero che possiamo occupare gli spazi pubblici e iscriverci all’università; ma è anche vero che oggi la condizione della donna, saudita o algerina ad esempio, se la prendiamo dal lato del codice della famiglia, non è tutelata: quando ad esempio a trent’anni ci si vuole sposare, il nostro codice prescrive che ci sia bisogno di un tutore di sesso maschile!».


Parliamo del velo? «Volentieri. Io dico e ridico, e forse mi sbaglio, che quando nel Corano è scritto che le donne del profeta vennero infastidite per strada, ciò accadde perché non erano abbastanza coperte. Dio disse allora al profeta che le sue donne dovevano coprirsi, ma non ci è dato di sapere se con uno scialle, un foulard o una mantellina. Ma non è mai stato detto che ci si debba vestire di nero, e tanto meno con uno scafandro come il burqa: la femminilità deve essere rivendicata dalle donne musulmane. In tutti i modi, all’epoca non vigevano prescrizioni strette come invece certe norme della shari’a prevedono. Ritengo che quel versetto del Corano volesse solo affermare che la donna deve vestirsi pudicamente, evitando tenute che possano essere provocatorie: e qui entrano in gioco la cultura e l’educazione, la capacità di affrontare la vita pubblica. C’è invece chi riduce il velo a un obbligo: se non lo metti non sei musulmana. Durante il periodo che ha preceduto il terrorismo, tanti mi dicevano che per essere vera musulmana dovevo mettere il velo, ma senza mai chiedermi se frequentassi la moschea, se dicessi le preghiere, se fossi onesta».
Leila Aslaoui non condanna certo le donne che portano il velo, ma talune storture che attraversano la società del suo paese. «Al tempo del terremoto del 2001 ho incontrato molte donne – mi dice –. D’improvviso ho scorto delle amiche che, addirittura mentre facevamo ginnastica in palestra, portavano il velo, cosa che non avevano mai fatto in precedenza. A mia esplicita domanda, mi hanno risposto che il terremoto era stato un frutto della collera di Dio perché le donne non si coprivano il capo! Si rende conto dell’ignominia di tale idea, di che fardello di colpevolezza si mette sulle spalle delle donne?». E sulle discussioni in Francia? «Chi entra nella repubblica laica francese – mi risponde – deve fondersi nella cultura di quel paese, ci mancherebbe. Eppure mi chiedo: la seconda o terza generazione d’immigrati, perché si rifugia nelle braccia dei fanatici, come mai dei giovani delle periferie urbane occidentali diventano kamikaze, perché tante ragazze portano il velo quando diventano maggiorenni? Vuol dire che l’integrazione è fallita. Ma il velo è un effetto, non è una causa. Bisogna porsi le domande giuste di fronte a questi problemi. Per esempio, perché c’è stata una violenza senza freni in Algeria? La violenza che si accanisce sui cadaveri della gente già morta è sintomo di una profondissima violenza dei cuori. Come siamo potuti arrivare a tanto? Perché assassinare delle religiose? Queste sono le domande che non ci si è posti, se non in ambienti ristretti. Per il velo è la stessa cosa: bisogna chiedersi perché queste donne hanno deciso di mettere il velo, e non tanto vietarlo!».

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