Il governo portoghese sta varando una "stretta" notevole per combattere la crisi finanziaria ed economica del Paese. Ma le sue bellezze non si dimenticano facilmente. Andiamo in vacanza in Portogallo (e in Grecia) per sostenere questi Paesi! Visita all'abazzia di Batalha, nel novembre 2004.
Il brullo interno del Portogallo manifesta una sua bellezza austera, che sembra racchiusa nella caducità e nella forza degli eucalipti, che tutto l’anno si spogliano del fogliame, attratto irresistibilmente dalla gravità terrestre, creando un tappeto vegetale che profuma di essenze mentolate. Una bellezza inusitata.
Dieci chilometri di curve a ponente del santuario mariano dei portoghesi e del mondo intero, Nossa Señora da Fatima, oltre una breve catena di montagne che pare quasi una steppa, si erge una abbazia in stile manuelino che pare un’astronave posatasi sulle brutture dell’opera dell’uomo, non è dato di sapere per quale benedizione celeste. Batalha, Santa Maria da Vitória. Vittoria, cioè la battaglia di Aljubarrota del 1358. Vincitori: Dom João, figlio illegittimo di Fernando I, e i portoghesi armati alla meno peggio. Perdenti: Juan de Castilla e gli spagnoli armati fino ai denti. Risultato: due secoli di indipendenza dei portoghesi dall’odiata Spagna. Il re lusitano aveva fatto voto, in caso di vittoria, di edificare una chiesa alla Vergine. Cosa che intraprese con lena e fervore già nel 1388, per lavori ciclopici che si conclusero solo due secoli più tardi, con diverse interruzioni, la più visibile delle quali fu quella imposta dal suo successore, Manuel I, perché aveva nel frattempo intrapreso l’impossibile impresa del Monsterio dos Jerónimos a Belém: le “Cappelle incompiute” ne sono la più evidente delle tracce.
Una vasta e slanciata chiesa, una cappella che ospita il sepolcro di João I e della sua amata consorte Filippa di Lancaster – i coniugi reali sono sepolti mano nella mano –, due chiostri aperti sulla bellezza, un refettorio che guarda alla sostanza delle cose, una sala capitolare che ospita due militi ignoti con tanto di picchetto d’onore, le cappelle incompiute di pietra ma non di sogno. E guglie slanciate e ardite, e pietre traforate come merletto, e archi dalle decorazioni così frastagliate e precise da sembrare arabeschi, e deambulatori dalle vertiginose prospettive che parrebbero percorsi purificatori verso l’Eden. Lo sguardo è incapace di concentrarsi su qualcosa di preciso, per il continuo inseguirsi di scorci stupefacenti e di ardimenti prospettici: la schizofrenia del turista dal collo di fil di ferro è dietro l’angolo.
Ma dietro l’angolo c’è pure la sorpresa assoluta di Batalha, ordita con la complicità di una luce autunnale penetrante e trasparente come poche. Nella grande e slanciata chiesa progettata da Alfonso Domingues, dall’altissima volta a pianta semplice di croce latina, su tre navate longitudinali, i pilastri si ergono come fulmini ascendenti, decorati ma semplici, intransigenti nella loro austerità quasi ieratica. Avvolti di luce. Dipinti di un caleidoscopio di colori e forme, effetto delle vetrate attraversate dai raggi pomeridiani di luce bianca che assorbe la pigmentazione del vetro colorato. È l’incanto della pietra calcarea che muta vocazione, divenendo tavolozza della creazione. La fredda e austera giustezza dell’architettura diventa quasi divertissement, gioiosa esaltazione dell’umana sorte. M’incanto di pigmenti trasparenti e volatili, e mi siedo e fotografo e rifotografo e ammiro e piango. Quei colori che mutano di posizione impercettibilmente ma inesorabilmente mi paiono metafora del tempo umano, impalpabile ombra del terrestre deambulare e traccia della similitudine divina dell’essere creato. M’incanto di pietra e di colori.
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