L'incredibile devastazione provocata dal terremoto che ha colpito la regione andina mi ha fatto tornare alla visita a Santiago Sud (dicembre 2008), in un quartiere di povertà della capitale. Di danni ce ne sono stati non pochi anche lì, tra gente dignitosa.
Quanto ho sentito e capito in questi giorni a proposito dell’iniquità del sistema politico e sociale del Cile lo costato, almeno un po’, in una visita che faccio ad alcune opere sociali. Mi accompagna un giovane studioso di comunicazione ed esperto informatico, Rodrigo Garcia, che svolge anch’egli diversi lavori, tutti al servizio della diocesi di Santiago. È un entusiasta, un catartico, una persona che crede che il meglio finisca sempre per accadere.
Il primo progetto si trova a Lo espejo, lo specchio, un sobborgo nella periferia meridionale della capitale, che ospita il grande mercato all’ingrosso del pesce della capitale (odori compresi!), cui si giunge dopo un’ora di macchina dal centro, e dopo essere passati attraverso abitati via via degradanti come ricchezza, come manutenzione, come bellezza. I grattacieli lasciano lo spazio al palazzo, il palazzo alla casa, la casa alla catapecchia, la catapecchia alla baracca. E alla polvere onnipresente.
Il progetto vuole portare i bambini del barrio a usare il computer e Internet. Per questo nella parrocchia – in realtà una cappella di legno dipinta di blu e immersa in un contesto urbano degradato, a metà industriale e a metà abitativo – è stata installata una antenna che permette di connettersi a Internet, seppur a velocità ridotta, nel raggio di un paio di chilometri. I bambini sono in vacanza, e quindi si presentano solo tre donne e un giovane uomo, che mi spiegano sommariamente il progetto. Poi mi fanno visitare la sala dei computer: sono 15, diligentemente ricoperti di plastica nera, per proteggerli dalla polvere che s’intrufola dappertutto in questa periferia desolata di Santiago.
Il servizio, gratuiti per i bambini, è a pagamento per gli adulti, 100 pesos all’ora, circa 15 centesimi, che qui sono comunque una somma non indifferente. Gli insegnanti sono tutti studenti universitari volontari, dai 22 ai 17 anni. Il progetto cerca di favorire anche la crescita di “leader di comunità”, che possano in qualche modo prendere in mano lo sviluppo del loro quartiere, e non solo della loro parrocchia. E si cerca, ovviamente, di non dimenticare minimamente le famiglie dei bambini, con programmi espressamente dedicati a loro. Ma non mi è dato di verificare di persona la bontà del progetto. Posso solo dire che le persone che mi accolgono paiono motivate.
E sono sempre loro che mi portano a visitare un centro per il recupero di tossicomani, promosso e gestito da una signora sulla sessantina che aveva perso un figlio, assassinato nel quartiere, e che in sua memoria ha deciso di mettersi al servizio dei più deboli della comunità. Non posso capire che metodo pedagogico usino – mi sembra estremamente rozzo –, né se la gente riesca poi a riabilitarsi. C’è una forte frammistione con la sinistra politica, tanto che il centro si chiama “Gesù di Nazareth-Resistencia”.
Passiamo poi, con mezz’ora d’auto, alla visita di un secondo progetto finanziato dalla Porticus, a San Miguel, un barrio certamente meno misero del precedente, e tuttavia assai povero. Si alternano commerci e abitazioni, alcuni mantenuti dignitosamente, altri lamentevolmente in stato di abbandono o quasi. Qui la fondazione ha finanziato l’apprendimento di informatica da parte di alcune madri di famiglia che hanno poi aperto un Internet Point che funziona egregiamente. E contemporaneamente loro stesse si sono trasformate in insegnanti di informatica per le donne del quartiere, ma anche per chiunque voglia istruirsi nel campo.
Sono cattoliche, Maritza e Rosita, e ci tengono a dirlo. Hanno una buona comunicativa, una simpatia debordante e una competenza certamente crescente. La pulizia del locale è perfetta, e le ragazze che entrano per connettersi alla Rete paiono conformarsi allo stile del locale. «Eravamo molto emozionate all’inizio – mi spiegano –, perché d’improvviso ci siamo rese conto che potevamo essere protagoniste della nostra vita, non solo delle donnette di casa obbligate a tirar su i figli e a far da mangiare al marito senza nessuna prospettiva migliore. Abbiamo potuto addirittura mettere su la nostra piccola azienda e contribuire così ai bisogni familiari. Eravamo così prese, all’inizio, che durante le lezioni del sabato ci dimenticavamo persino di fare la spesa!
Non era facile sottrarre del tempo alle normali attività domestiche, resistendo tra l’altro alle proteste dei nostri mariti, sorpresi dalle nostre energie e dalla nostra determinazione». C’era una clausola nel progetto: che le donne diventassero a loro volta insegnanti. Cosa che è puntualmente avvenuta. «Molti giovani vengono qui in periodo scolastico per le loro ricerche, e non di rado siamo noi ad aiutarli, ad indirizzarli verso la giusta direzione. Alcuni di loro hanno dovuto e devono ancora resistere alle resistenze delle madri, che vedono nell’informatica qualcosa che sottrae loro i loro figli…
Fatale e naturale è collaborare ai progetti di solidarietà della parrocchia: attraverso questo Inernet Point, in effetti veniamo a conoscenza di non pochi casi umani anche gravi, per cui è naturale per noi rendere loro visita e capire come possiamo aiutarli, sia come parrocchia che come azienda. Con questo progetto aumenta nelle donne l’autostima, il coraggio, al qualità della vita e anche il loro lato spirituale. Un altro modo di entrare in contatto con gli adulti è attraverso i figli ai quali insegniamo l’informatica, o che l’apprendono a scuola: sono loro a diventare maestri dei genitori e a mostrare loro un mondo che nemmeno sospettavano che esistesse, attraverso Internet». Queste due donne mi hanno conquistato. Mi hanno preso il cuore.
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