La cittadina pugliese è improvvisamenet salita al centro dell'attezione di tutta Italia per l'indagine sulle presunte pressioni sulla Rai e sull'Authority per le comunicazioni per l'oscuramento di alcune trasmissioni sgradite al premier. Visita del settembre 2006.
L’odore, la puzza o il profumo dei cefali e dei tonni, delle spigole e delle seppie si spande ovunque nei vicoli della città vecchia, viuzze su cui si affacciano palazzi dallo stile indecifrabile per un occhio frettoloso: dal romanico al barocco, dal normanno a una nuance di gotico veneziano, incappando persino in una chiesa, quella di Ognissanti, che fu haut-lieu dei templari fino al tempo della loro soppressione. Si svicola come anguille nel centro cittadino, seguendo gli effluvi, talvolta di grigliate o di acque pazze, certi così di giungere al mare, di schiaffeggiare i piedi contro le onde di cui si ode la musica e si odora l’indecifrabile salsedine. Il mare, l’Adriaticum, la madre di tutti i mari per la gente di queste contrade. Non hanno altri mari con cui confrontare il loro amico-nemico d’ogni giorno.
È il castello svevo l’ultimo ostacolo che si frappone tra mne e il mare. Lo intuisco dall’austera sagoma squadrata, dominata da due paurose e tozze torri: una tale costruzione non può che avere come vocazione quella di bloccare marosi o pirati, gli sfrontati contrabbandieri o persino l’impeto del vento. Il castello, come altri nella regione, a cominciare dal celeberrimo Catsel del Monte, fu voluto da quella inesauribile mente che fu Federico II. Ospitò nel 1259 le nozze di Manfredi, l’imperatore timido, con la principessa Elena Gomneno. Poveretta, la regale consorte fu poi catturata e rinchiusa proprio in questo maniero austero e pauroso.
Accanto al castello, di cui riprende gli archi verso il mare, ecco la cattedrale dedicata a Santa Maria, una vera e propria basilica completata a metà dell’XIII secolo a ridosso del porto, azzurro della quiete del cielo e del movimento delle acque (che non sono elementi contradditori, tutt’altro!). La facciata è mossa da una scalinata a doppia rampa che sale ripida e decisa al portale maggiore guardando al rosone, come avvolta da un incanto marittimo. L’odore dei ceri si mescola a quello del pesce e della salsedine, creando un profumo che stupisce per la sua inusitata delicatezza, quasi che gli effluvi liturgici avessero bisogno della quotidianità più ovvia – ma altrettanto rituale –, quella del cibo, per dimostrare che il divino poggia sull’umano, e viceversa.
Ma quel che più stupisce è l’inclinazione, l’asse assunto dal duomo nei confronti dello spazio del porto. Non si volge infatti verso di esso con la facciata delicata e ricca di aggraziate decorazioni, ma con l’abside, o meglio con le grandi forme semicilindriche delle tre absidi. Ed è perciò questa, e solo questa, l’immagine che i pescatori e i marinai scorgono entrando in porto, magari dopo una notte buia e tempestosa o una giornata nella nebbia impenetrabile. Che cosa avrà spinto il progettista a inventare sulla carta quest’anomalia? Me lo chiedo con curiosità. Mi rispondo che sì, queste tre absidi così uniche hanno qualcosa di materno, di forte e nel contempo d’aggraziato, come un utero multiplo e accogliente. È questo che chi arriva dal mare desidera e aspetta: una protezione dolce e forte, alla fine della lunga battaglia con le onde e coi marosi.
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