Riporto quanto ho detto ieri sera alla presentazione del libro del collega della Radio Vaticana pubblicato dalla Effatà, a Roma, alla quale sono stato invitato assieme al prof. Gray della John Cabot University di Roma, a Paolo Mastrolilli, caporedattore de "La Stampa", moderati da Fabio Colagrande della Radio Vaticana. Erano presenti tra gli altri l'ambasciatore statunitense presso la Santa Sede e il Direttore della Sala Stampa Vaticana.
Certamente Obama ha portato un vento di novità negli Usa e nella sua politica, ha sparigliato le carte in tavola. E non possiamo non affrontare le questioni che sta sollevando, dalla gestione della crisi economica alla riforma sanitaria, dall’atteggiamento verso il mondo musulmano al rinnovato impegno nella guerra d’Afghanistan. Questioni che stanno buttando per aria la tradizionale divisione tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra. Obama ha buttato per aria una serie di preconcetti e pregiudizi: ad esempio 1) che un nero non potrebbe essere presidente, e buon presidente; 2) che gli Stati Uniti non possano essere amati nel mondo, ma solo temuti per la loro forza economico-militare; 3) che Dio debba essere un monopolio della destra… E altri ancora.
Premetto che non sono un politologo e nemmeno un americanista. Sono un semplice cronista che si è interessato in particolare di tutto quanto c’è ad Oriente della nostra Italietta. L’Oriente mi attira più dell’Occidente, indiscutibilmente, come accadde a Ella Maillart, a Tiziano Terzani, a Robert Fisk… Ma andando ad Oriente mi è sembrato sempre più chiaro che l’Occidente è indispensabile all’equilibrio del mondo, e che gli Usa hanno un ruolo straordinario da svolgere ancora.
Più giro per il mondo, più mi sembra vero quanto scrisse Alexis de Toqueville: «L’America è grande perché è buona. Se cessasse di essere buona, cesserebbe pure di essere grande». Frase sibillina, ma verissima! Ho costatato a iosa nei miei viaggi – soprattutto in quelli fatti nei Paesi islamici, ma non solo, penso all’America Latina – che gli Usa sono generalmente ammirati ma anche disprezzati, se non francamente odiati. Durante gli anni difficili dell’amministrazione Bush, questo odio ha toccato vette difficilmente ipotizzabili in precedenza.
Ricordo una visita a Baghdad nell’aprile 2003, appena finita la guerra d’Iraq. Nell’incontro con mons. Warduni intuii come la guerra avrebbe scavato il solco della divisione in modo impensabile. Ricordo pure una visita al Cairo. In un’intervista, lo sceicco di Al Azhar Tantawi, era il 2005, mi disse affranto: «Non so proprio come fare per evitare che gli egiziani e i musulmani in genere possano arrivare non odiare gli Usa e Israele. La presidenza Usa attuale sta distruggendo la nostra pazienza».
Eppure oggi qualcosa cambia. Quest’estate in Uzbekistan il gran muftì di Taskent mi ha dichiarato: «Con Obama si può parlare, non è più un anti-musulmano». E, al seguito del papa, nel suo viaggio in Terra Santa, ho potuto parlare con il prof. Abu Sway, già ministro in uno dei tanti governi palestinesi, vicino ad Hamas: «Ci costringono a condannare Obama, ma ti assicuro che c’è molta speranza nella sua persona per risolvere il problema israelo-palestinese».
In questo senso mi ha particolarmente interessato, ovviamente, il capitolo del libro di Alessandro Gisotti dedicato al rapporto di Obama con i musulmani – “Da Pennsylvania Avenue ad Al Azhar” s’intitola –, ben documentato e oggettivamente chiaro. Il discorso del 4 giugno 2009 al Cairo è stato il segno di un cambiamento portato dal 44° presidente Usa. Un segnale recepito da chi di dovere. E mi sono chiesto: perché il Dio di Bush allontanava gli Usa dai musulmani e quello di Obama invece li avvicina? La risposta sta forse nella genealogia di Obama. Soprattutto in essa. Ma sta anche e soprattutto nella sua cultura, in quella elaborata tra ateismo, Islam, cristianesimo evangelico e radicalità sociale.
Poco prima di questo importante libro di Alessandro Gisotti, il valdese Giorgio Bouchard ha dato alle stampe, per la Claudiana, un libro simile e diversissimo: La fede di Baraci Obama. Quando la religione non è oppio. Da prospettive assai diverse, ma comunque entrambi da cristiani e da credenti, concordano nel sottolineare la fede «comunque vera» del presidente Usa. Bouchard riporta una citazione di Obama che mi piace leggere: «Non ho soltanto fatto dei discorsi, ho agito di conseguenza» (p. 47). Bouchard parla così di un «realismo cristiano» (p. 35). Gisotti, invece, non giunge a plaudire (o denigrare) della sorta Obama, ma guarda a lui con un grande interesse, da studioso cristiano: più distaccato e oggettivo di Bouchard, Alessandro Gisotti offre un documento, lasciando poi al lettore il compito di farsi la sua opinione, in particolare per quanto riguarda le ancora difficili relazioni col mondo cattolico statunitense, meno con la realpolitik del Vaticano.
In particolare mi sembra importante sottolineare come Gisotti abbia evitato di cadere nel tranello di giudicare Obama solo col metro del “valore non negoziabile” dell’aborto o dell’eutanasia. I “valori non negoziabili” della Chiesa non sono solo questi, invertendo tutto il campo della vita dell’uomo, non solo l’inizio e la fine.
Insomma, dobbiamo ringraziare Alessandro Gisotti per averci portato per mano, con chiara lucidità e ampia documentazione, alla scoperta di un aspetto non sempre sottolineato dai nostri media, come spesso accade troppo provinciali. Un tema che certa intellighenzia italiana ed europea considera di scarsissimo interesse, ma che in realtà è forse la chiave di lettura principale per capire la presidenza Obama nel suo complesso. E tutte le presidenze statunitensi da Lincoln in qua. Abbiamo così capito un po’ di più il personaggio Obama che, come dicevo, certamente rientra a fatica negli stereotipi destra/sinistra, conservatore/progressista, bianco/nero. È un presidente che certamente può aprire una nuova stagione della politica statunitense e mondiale.
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