lunedì 22 marzo 2010

Srebrenica, le tombe verdi


Nuove rivelazioni spiegano come l'ignavia, la pavidità, la poca responsabilità dei caschi blu olandesi fu all'origine della strage di 8000 musulmani del luglio 1995. Visita nel 2005.

Il cammino, quasi un pellegrinaggio verso Srebrenica, dura circa tre ore di sola andata. I miei accompagnatori, cattolici di Sarajevo, paiono turbati, perché da queste parti non c’erano mai venuti prima della guerra e tanto meno si erano avventurati per più di una ventina di chilometri in questo territorio a prevalenza etnica serba, nella Bosnia del dopo Dayton. Timore di rinnovare sentimenti a fatica repressi. Il paesaggio è superbo, i boschi alti e incantevoli, i campi grassi di verde e d’umidità. Gli abitanti, invece, sono precari e disordinati, tutti o quasi feriti in qualche loro parte dai combattimenti della lunga guerra civile. Le mucche pascolano sui cigli delle strade – vecchia abitudine dei tempi del socialismo reale –, e persino nei cimiteri che sorgono un po’ ovunque le tombe paiono quasi tutte assai recenti. Ma gran parte di questo affascinante territorio nasconde il pericolo delle mine anticarro ed antiuomo, per cui Sarajevo in certo modo pare avere ancora un assedio da combattere, quello dei boschi minati.

Arrivando nel cantone di Srebrenica, c’è qualcosa che colpisce ancora lo sguardo, a dieci anni di distanza dal massacro perpetrato dai serbi di Mladić ai danni della locale comunità musulmana: le case scarnificate, con lo scheletro di cemento armato – in ogni caso precario e artigianale – a cui sono rimasti attaccati a volte penzolante moncherini di muro. Gli altri mattoni sono stati prelevati, assieme a tutto ciò che eventualmente esisteva, ed ora compongono altri muri, magari quelli della casa del vicino. Dell’ex vicino serbo. La valle di Srebrenica è una lunga serie di abitazioni assai simili costruite senza alcun piano regolatore, case da rimesse di immigrati, costruite in economia, poco alla volta, e in un caso su due, ancora prive di intonaco. In queste case vivevano – e in parte vivono ancora – famiglie musulmane in prevalenza bosniache e famiglie ortodosse, quasi tutte serbe. E poi qualche nucleo croato e cattolico. Ma il sangue che è colato nel torrente di Srebrenica era quasi esclusivamente sangue misto: la purezza della razza da queste parti non è che illusione e imbroglio. Più imbroglio che illusione, a dire il vero.

Prima di arrivare all’abitato, musulmani, ma non solo, hanno edificato un mausoleo che è pure cimitero, per le vittime del “genocidio” ufficialmente riconosciute. Un migliaio, sulle 8 mila stimate. I cadaveri di coloro ai quali non è stato ancora associato un nome sono raccolti nella sconfinata camera frigorifera approntata apposta a Tuzla, dove si cerca di districarsi nella foresta dei dna, sperando di non sbagliarsi. Tra le file di tombe tutte uguali, segnate da lapidi di legno verde, ecco una famiglia, solo una, che passa tra le sepolture, riconoscendo un nome, un altro, un terzo. Hasan Jukić, accompagnato da madre, moglie e figlio, qui ha sepolto il padre e due fratelli. Ad ogni tomba conosciuta, le due donne si inginocchiano e levano le mani verso Allah, con dolore ma compostamente. Direi con raccoglimento.

Hasan mi racconta della fuga nei boschi, nottetempo, quando i serbi, come cani ringhiosi finalmente liberati dal guinzaglio delle Nazioni unite, allora e in quel posto di marca olandese, hanno dato fondo a quanto di più bestiale esiste nell’uomo. Una fuga precipitosa, senza nulla, cercando di salvare la pelle propria e quella dei cari, in particolare della moglie incinta. Poi la sopravvivenza nel bosco, la paura di scendere sulle strade, d’imbattersi in qualche pattuglia serba, di conoscere la verità sui propri cari. Tre mesi della sosta, tre mesi di selvaggia disperazione come frutto d’un insopprimibile istinto di sopravvivenza. Nel corso dei quali nacque Nazer. Una vita nella morte. Oggi un simbolo, a dieci anni dall’abominio, tanto più che la famiglia Jukić vuole vivere ancora in un paese in cui cristiani e musulmani, serbi e bosniaci e croati abitano gli uni accanto agli altri, hanno le stesse scuole, gli stessi negozi, gli stessi campi, gli stessi uffici. Le stesse strade, gli stessi mattoni.

Discorsi analogo ritrovo nelle parole dell’iman Alija Jabokovic, anch’egli figlio di questa terra, anch’egli fuggito nei boschi e scampato alla morte quand’era ancora un adolescente. Alija accoglie i musulmani che stanno tornando poco alla volta nel loro villaggio, erano 18 mila, 8 mila sono stati uccisi, 4 mila sono tornati o rimasti, 6 mila sono ancora in esilio ed esitano a tornare, anche se di pericoli sembrano non essercene più, per via della presenza internazionale assai massiccia – ci sono tutti: Osce, Nato, Unione europea, Care International, Caritas… – che secondo l’iman non sono più indispensabili per assicurare una convivenza pacifica, ma solo per fornire qualche posto di lavoro che sembrano ora crudelmente latitare. «Al bar ci salutiamo, spesso sediamo allo stesso tavolo, non abbiamo risentimenti particolari, salvo eccezioni, per qualcuno che ha denunciato noi musulmani. Ma sono casi isolati, che spesso se ne sono già andati. Chi ha ucciso non era di queste parti». Alija ha perso padre, madre e fratelli nel massacro di Srebrenica: «Non posso dimenticare, non sarà mai possibile. Ma posso vivere, questo sì, cercando di non pensare troppo a quei momenti, e di coltivare nel mio cuore sentimenti di pace».

Erano 18 le moschee di Srebrenica. Ora una sola è in funzione, ma altre tre stanno per essere riaperte. A fatica ricomincia una vita che si vorrebbe normale, anche se le tracce degli incendi e delle distruzioni non sono e non saranno facilmente cancellati. L’Europa è presente – ci mancherebbe altro – perché qui essa ha qualcosa di molto grave da farsi perdonare.
Giuseppe Terrasi, un docente italiano qui lavora per una Ong, la Icmo, Centro di ricerca per l’educazione alla pace. La sua analisi è lucida: «È il terzo anno che vengono organizzate le Giornate di Srebrenica, le Dani Srebrenice, un modo per far sentire agli abitanti della cittadina che si può ricominciare. Oggi inauguriamo il nuovo Centro giovanile. Ci sono momenti di sconforto che si alternano ad altri invece di speranza, come l’istituzione di un organismo ad hoc che cerca di rimettere dell’ordine nella titolarietà di case e terreni, permettendo ai legittimi proprietari di tornare in possesso dei loro beni. Fino all’anno scorso i profughi tornavano sotto scorte per il timore di rappresaglie, mentre oggi tornano senza troppe preoccupazioni. Tuttavia di notte Srebrenica fa ancora paura: nessuno gira per le strade, nessuno cerca di trovare un qualsiasi divertimento nella città».

Salgo i gradini che conducono alla moschea, e poi quelli identici che portano alla chiesa ortodossa. A fianco, ovunque distruzioni e qualche ricostruzione. I fori dei proiettili, visibili ancora su quasi tutti i muri, testimoniano la violenza e la brutalità dei combattimenti. I cimiteri sono gli unici terreni curati e in espansione. I due luoghi di culto si fronteggiano, issati su due alture che sovrastano la piazza principale del paese. Paiono voler meditare mentre il primo sole estivo inonda il paesaggio di una luce troppo forte. Una strage, quasi una pulizia etnica, un piccolo genocidio non può mai avere una spiegazione plausibile, ma solo tentativi di comprensione.
E allora, scendendo le scale della moschea e quelle della chiesa non posso che cercare di raggruppare nell’anima sentimenti e ragioni. E decidere di soprassedere: solo il silenzio spiega. Un silenzio rotto a sera dalla tivù di mezzo mondo: l’emittente serba ha in effetti mandato in onda un lungo e drammatico filmato che documenta la cattura e l’esecuzione di una dozzina di musulmani di Srebrenica da parte delle famigerate milizie paramilitari serbe, sotto gli occhi di un ufficiale dell’esercito regolare. In seguito al filmato, otto persone sono state arrestate. Mi sembra di riconoscere alcuni luoghi visitati proprio quest’oggi. Insostenibili sono gli sguardi di quegli uomini inermi che si chinavano di fronte alla vergogna di cristiani che non solo hanno tradito, ma che hanno crocifisso di nuovo il loro Dio. Perdono è una parola che bisogna riempire di fatti per riuscire a far dimenticare queste immagini.

Nessun commento: