Beslan, o del mistero della morte innocente. Dal viale alberato che si perde nella campagna di mais si scorge il vecchio cimitero dal colore della morte. D’improvviso appare una distesa di granito rosso protetto da un grande albero. Avanzo nel sole abbacinante, avendo come sfondo da un lato il mare di lapidi, inquietante per le foto infantili che mostrano, e dall’altro la campagna verdissima, grassa come ovunque nel Caucaso: la gente di Beslan è contadina, qui si produce vodka.
L’albero a protezione delle tombe muta all’avvicinarsi, rivelando un tronco massiccio composto dalle statue delle madri di Beslan che sollevano al cielo, come rami terribilmente terreni e come angeli leggeri e celesti, i loro bambini. Il memoriale di bronzo, alto una dozzina di metri, svetta naturale e innaturale, con le sue intricate fronde che segmentano il Cielo, quasi a significare lo sgomento che anche lassù s’è provato il 3 settembre 2004: 334 tombe. Benvenuti a Beslan.
Sotto la protezione dell’albero ci s’avventura in una delle più spaventose passeggiate esistenti sulla terra, quelle che toccano l’abominio. Provo le stesse sensazioni conosciute ad Auschwitz e Dachau, ma anche a Srebrenica, o al memoriale degli armeni a Yerevan. Tombe singole e a grappolo per le vittime della stessa famiglia – fino a cinque ne conto –; su ognuna le foto a colori di volti di piccoli angeli, di adolescenti imberbi in abito da nozze o con la maglietta del Milan, in posa o spontanei, sorridenti o impettiti. Qualche donna si aggira per i viali, si ferma a una tomba e poi a un’altra. Sono pochi i segni religiosi, quasi tutti cristiani, a testimonianza di una città che si risvegliava dal comunismo lentamente, senza manifestare trasporti mistici e nemmeno culturali.
L’albero a protezione delle tombe muta all’avvicinarsi, rivelando un tronco massiccio composto dalle statue delle madri di Beslan che sollevano al cielo, come rami terribilmente terreni e come angeli leggeri e celesti, i loro bambini. Il memoriale di bronzo, alto una dozzina di metri, svetta naturale e innaturale, con le sue intricate fronde che segmentano il Cielo, quasi a significare lo sgomento che anche lassù s’è provato il 3 settembre 2004: 334 tombe. Benvenuti a Beslan.
Sotto la protezione dell’albero ci s’avventura in una delle più spaventose passeggiate esistenti sulla terra, quelle che toccano l’abominio. Provo le stesse sensazioni conosciute ad Auschwitz e Dachau, ma anche a Srebrenica, o al memoriale degli armeni a Yerevan. Tombe singole e a grappolo per le vittime della stessa famiglia – fino a cinque ne conto –; su ognuna le foto a colori di volti di piccoli angeli, di adolescenti imberbi in abito da nozze o con la maglietta del Milan, in posa o spontanei, sorridenti o impettiti. Qualche donna si aggira per i viali, si ferma a una tomba e poi a un’altra. Sono pochi i segni religiosi, quasi tutti cristiani, a testimonianza di una città che si risvegliava dal comunismo lentamente, senza manifestare trasporti mistici e nemmeno culturali.
“Scuola n° 1”. Il piazzale, poco più d’un prato, come un corridoio tra città e ferrovia. Qui bambini, insegnanti, bidelli e accompagnatori furono sorpresi dall’arrivo dei terroristi ingusci e ceceni, che li circondarono in pochi secondi, spingendoli poi nei locali della scuola, in particolare nella palestra che dà sul cortile. I luoghi visti e rivisti mille volte in tivù ora assumono un tutt’altro aspetto, un tutt’altro odore, una tutt’altra consistenza.
La palestra è diventata un memoriale in sé, con le foto plastificate delle vittime divise per categorie e per classi, con una grande croce ortodossa infilata nel cratere principale creatosi sul pavimento per l’impatto degli ordigni, bandiere e stendardi, orsacchiotti e pupazzi d’ogni genere deposti dai piccoli visitatori, qualche foto rovinata di quei giorni, fiori d’ogni tipo, travi bruciate del soffitto (ora ricoperto di plexiglass), qualche quaderno, qualche messaggio pietoso. E molte bottigliette d’acqua: la sete era stato il tormento principale per i bambini in quei giorni, e l’acqua è perciò diventata il segno del ricordo amoroso per coloro che hanno perso la vita a Beslan. Si riconosce una bandiera arcobaleno della pace, portata da gente di Carrara.
Mi avventuro per un cunicolo oscuro e mi ritrovo a deambulare senza meta apparente, seguendo i corridoi, entrando in un’aula o in un laboratorio, salendo scale profanate, sostando dinanzi ad un quaderno, sfogliando un libro di matematica, togliendo la polvere da un ritratto di Einstein, scoprendo tra i calcinacci un disco di canti popolari, guardando la tappezzeria dell’ufficio del direttore che era stata appena cambiata. Dappertutto fori di proiettili, vetri in frantumi, mobili resi scheletri osceni, controsoffiti che pendono come brandelli di carne abbrustolita, muri sventrati che mostrano la trama di legno e paglia. Nulla s’è salvato dalla distruzione in quei tre giorni d’inferno, ad opera dei terroristi ma anche (e soprattutto) delle forze speciali intervenute con una determinazione non inferiore a quella dei terroristi.
Non c’è più un solo proiettile, una sola traccia organica, qualcosa che possa essere utile alla ricerca della verità: tutto è stato asportato, tranne ciò che era inutile. Ma resta l’essenziale. Resta ora solo, appunto, l’inutile, metafora della vita dei bimbi secondo coloro che hanno sparato e ucciso; restano buchi, vuoti e mancanze, cioè quanto il Dio morto in croce ha svelato.
La palestra è diventata un memoriale in sé, con le foto plastificate delle vittime divise per categorie e per classi, con una grande croce ortodossa infilata nel cratere principale creatosi sul pavimento per l’impatto degli ordigni, bandiere e stendardi, orsacchiotti e pupazzi d’ogni genere deposti dai piccoli visitatori, qualche foto rovinata di quei giorni, fiori d’ogni tipo, travi bruciate del soffitto (ora ricoperto di plexiglass), qualche quaderno, qualche messaggio pietoso. E molte bottigliette d’acqua: la sete era stato il tormento principale per i bambini in quei giorni, e l’acqua è perciò diventata il segno del ricordo amoroso per coloro che hanno perso la vita a Beslan. Si riconosce una bandiera arcobaleno della pace, portata da gente di Carrara.
Mi avventuro per un cunicolo oscuro e mi ritrovo a deambulare senza meta apparente, seguendo i corridoi, entrando in un’aula o in un laboratorio, salendo scale profanate, sostando dinanzi ad un quaderno, sfogliando un libro di matematica, togliendo la polvere da un ritratto di Einstein, scoprendo tra i calcinacci un disco di canti popolari, guardando la tappezzeria dell’ufficio del direttore che era stata appena cambiata. Dappertutto fori di proiettili, vetri in frantumi, mobili resi scheletri osceni, controsoffiti che pendono come brandelli di carne abbrustolita, muri sventrati che mostrano la trama di legno e paglia. Nulla s’è salvato dalla distruzione in quei tre giorni d’inferno, ad opera dei terroristi ma anche (e soprattutto) delle forze speciali intervenute con una determinazione non inferiore a quella dei terroristi.
Non c’è più un solo proiettile, una sola traccia organica, qualcosa che possa essere utile alla ricerca della verità: tutto è stato asportato, tranne ciò che era inutile. Ma resta l’essenziale. Resta ora solo, appunto, l’inutile, metafora della vita dei bimbi secondo coloro che hanno sparato e ucciso; restano buchi, vuoti e mancanze, cioè quanto il Dio morto in croce ha svelato.
Quasi tutto è rimasto com’era in quel 4 settembre del 2004, dopo che soccorritori e forze speciali avevano portato via le ultime vittime, in tutto 334 stando agli ultimi accertamenti, come mi conferma il vice-capo dell’amministrazione della regione, Khasbi Koniev. È stata avanzata la proposta di radere al suolo la scuola e costruire al suo posto una chiesa. Ma, come ci spiega Koniev, la decisione non è per niente pacifica: «Alcuni vogliono che tutto rimanga così com’è, che non si tocchi niente: altri dicono invece che si deve preservare dalla distruzione solo la palestra; e poi c’è chi vuole rimuovere le macerie e costruire una chiesa». E chi una moschea. Bella Dzugkaeva – due figli sopravvissuti ai tre giorni di sequestro – mi spiega che, abitando davanti alla scuola, per lei e i suoi è insostenibile avere davanti agli occhi tutti i giorni e a tutte le ore quella drammatica visione, quasi un quadro ossessionante: «Ci vorrebbe un memoriale, penso una chiesa. In quei giorni chi era dentro la scuola ha pregato, così come noi che eravamo fuori dalla scuola: ci siamo messi in ginocchio. Durante tutta la vita eravamo stati atei, ma in quei momenti ci siamo rivolti verso Dio», mi confida. Le famiglie che si affacciano sul suo stesso cortile hanno accompagnato al cimitero in quei giorni 34 bare. «Per un anno non abbiamo sentito ridere e schiamazzare nel cortile. Adesso siamo felici quando sentiamo di nuovo le grida dei bambini che giocano». La vita a Beslan ormai è divisa tra un “prima” e un “dopo”: ma da quest’anno si sente di nuovo la musica nei locali nella cittadina.
Per Bella Dzugkaeva il lavoro da terminare è quello di portare chi ha sofferto per quel trauma terribile a credere che nel mondo il bene esiste: «Cerchiamo di convincerli che, nonostante tutto quello che è successo, le persone buone sono molto più numerose delle cattive». Ricorda che, mentre assisteva il figlio maggiore ricoverato in ospedale a Mosca, «una donna anziana, povera, che non ci conosceva, ci ha portato mele e uova sode… Un gesto che ci ha molto toccato, perché quella donna ha dato tutto quello che aveva».
Khasbi Koniev ricorda anche la solidarietà internazionale, i Paesi che hanno ospitato gruppi di bambini di Beslan, Italia in testa. «Un’organizzazione italiana ci ha regalato 600 biciclette, una per ogni bambino sopravvissuto al sequestro», aggiunge. Quest’anno hanno terminato la scuola una cinquantina di ragazzi e ragazze che erano stati ostaggio durante quei tre giorni. Koniev sottolinea il caso di Diana Murtazova, costretta su una sedia a rotelle dopo la tragedia e sottoposta a una lunga serie di interventi chirurgici, costretta a studiare a casa tra una cura e un’altra: anche lei ha finito la scuola con gran merito.
Che la polemica sia ancora aperta sulla verità dei fatti di Beslan, Khasbi Koniev non lo nasconde: «C’è chi dice che le indagini non siano state compiute in modo esauriente e corretto e che non tutti i colpevoli siano stati tirati in ballo». E aggiunge che sono soprattutto le “Madri di Beslan” a volere una risposta esauriente ai loro tanti perché.
Le "madri di Beslan". Di tutto ciò parlo più a lungo con Ella Kessaeva, anima della organizzazione “Voce di Beslan”, appunto tra le più attive “Madri di Beslan”. In un ufficio improvvisato dentro la sua abitazione prepara il materiale per una nuova seduta in tribunale, contro l’amnistia concessa ai poliziotti dell’Inguscezia che, secondo loro, hanno la colpa di aver lasciato passare il gruppo dei terroristi. «Le cause le perdiamo immancabilmente, perché qui in Russia non c’è giustizia nei tribunali». Anche questa volta perderanno.
Ma Ella Kessaeva parla con la serenità di chi è convinta di quello che fa: non a caso era amica di quella Anna Politkovskaja che è stata uccisa nell’ottobre 2006 a Mosca, con tutta probabilità anche per le sue coraggiose inchieste sulle menzogne di Beslan. Parla con cognizione di causa, Ella, perché aveva una figlia nella scuola, sopravvissuta per miracolo al massacro. Mentre le due donne che lavorano ora con lei hanno storie più tragiche: Svetlana Narghieva ha perso una figlia in quei giorni ed Emma Tagaeva ha perso il marito e due figli, cioè tutta la sua famiglia.
Ella Kessaeva sostiene che le autorità non hanno detto tutta la verità sull’assedio e sull’intervento degli agenti speciali. Per confermare le sue accuse fa riferimento alla relazione presentata da Yuri Savelev, deputato del Parlamento russo e membro della Commissione parlamentare d’inchiesta su Beslan, che al termine dei suoi lavori ha rifiutato di firmare la relazione ufficiale, proponendone una alternativa. Il principale punto di contrasto tra la versione ufficiale e quest’ultima consiste nel fatto che Savelev attribuisce l’origine delle prime esplosioni, quelle che hanno scatenato l’assalto finale, non allo scoppio di un ordigno dei terroristi ma al fuoco dei lanciagranate appostati sui tetti dei palazzi di fronte alla scuola. Sarebbero perciò pochi i morti attribuibili all’azione dei terroristi rispetto a quelli provocati dall’attacco finale degli agenti russi.
Ella Kessaeva ora pensa che sarà possibile portare il caso al tribunale di Strasburgo, per far prevalere finalmente la verità. Ma intanto, anche lei si mostra grata della solidarietà internazionale provocata dalla tragedia di Beslan: «Siamo riconoscenti all’Italia che ha reagito per prima all’orrore: non dimenticheremo la fiaccolata di Roma di quelle ore, e il fatto che per primi gli italiani hanno invitato i nostri bambini in vacanza da loro».
Un tocco d’Italia. I funzionari del ministero degli Esteri insistono perché visiti un ulteriore segno della solidarietà italiana, un padiglione di pediatria costruito dalla Protezione civile italiana, col contributo dell’ospedale di Macerata, all’indomani dell’emozione della strage di Beslan e il desiderio tutto italico di offrire ai bambini sopravvissuti e feriti la possibilità di riprendersi, di curarsi, di riabilitarsi dagli handicap di cui soffrivano all’indomani della strage.
Il pediatrico è inserito in un grande parco alberato, in cui prendono posto una decina di padiglioni che dire fatiscenti è poco. Il contrasto col padiglione colorato costruito dagli italiani colpisce. È come un doposcuola, un parco giochi per i bambini, che qui usufruiscono di cure rese anch’esse simili a giochi. Con 380 mila euro, mi spiega Tamerlan Zaseev, funzionario del ministero degli Esteri che non poco s’è dato da fare per la sua realizzazione, per superare le innumerevoli frizioni tra le amministrazioni italiana e osseta, per trovare trucchi atti a risparmiare senza snaturare il progetto. Indubbiamente va fiero di quanto ha fatto per questo reparto.
Ma non è tutto. In uno dei padiglioni più fatiscenti – controsoffitti cadenti, fili scoperti, sporcizia inveterata, cattivo gusto imperante, porte di sicurezza chiuse a chiave, scale come vere barriere architettoniche, vetri rotti e sporchi, porte raschiate e mai pitturate, intonaci con le bolle con la scabbia con la lebbra, macchinari vecchi di cinquant’anni –, la nostra Protezione civile ha riadattato un reparto su due piani. Pare di entrare in un altro mondo, un mondo di soli e lune, fiori e praterie. Un vero miracolo di attenzione ai piccoli. Entro in qualche stanza, dove intere famiglie si trasferiscono col loro bambino malato – pronta accoglienza, interesse per la sindrome del piccolo, lacrime, preghiere, abbracci –, e ci si rende conto che con poco, con pochissimo si può fare del bene, cambiare una bruttura in una bellezza, l’inutile in utile, la morte in vita. Di nuovo, come sempre, più di sempre.
Tamerlan mi segnala anche altri contributi arrivati dall’Italia dopo Beslan: Maria Pia Fanfani e il suo “Sempre insieme per la pace”, con la Fondazione Olivetti (giocattoli, camioncini…); Protezione civile (ospedale pediatrico di Vladikavkaz con 26 posti letto, biciclette per i bambini sopravvissuti, equipaggiamenti medici, riparazione del laboratorio di encefalografia ed elettrotomografia dell’ospedale di Beslan, 30 bimbi in Italia per le vacanze di Natale); Regione Veneto (fondi); Ennio Bordato di Trento e la sua associazione (30 bimbi e 30 genitori per due mesi in Italia); Università di Padova (psicologi a Beslan); COPAM del sen. Provera (borse di studio). Qui degli italiani, prima del dramma di Beslan, ci si ricordava in primo luogo per il loro passaggio disperato, persi nella steppa durante la fase finale della Seconda guerra mondiale… Ora è un’altra cosa.
Per Bella Dzugkaeva il lavoro da terminare è quello di portare chi ha sofferto per quel trauma terribile a credere che nel mondo il bene esiste: «Cerchiamo di convincerli che, nonostante tutto quello che è successo, le persone buone sono molto più numerose delle cattive». Ricorda che, mentre assisteva il figlio maggiore ricoverato in ospedale a Mosca, «una donna anziana, povera, che non ci conosceva, ci ha portato mele e uova sode… Un gesto che ci ha molto toccato, perché quella donna ha dato tutto quello che aveva».
Khasbi Koniev ricorda anche la solidarietà internazionale, i Paesi che hanno ospitato gruppi di bambini di Beslan, Italia in testa. «Un’organizzazione italiana ci ha regalato 600 biciclette, una per ogni bambino sopravvissuto al sequestro», aggiunge. Quest’anno hanno terminato la scuola una cinquantina di ragazzi e ragazze che erano stati ostaggio durante quei tre giorni. Koniev sottolinea il caso di Diana Murtazova, costretta su una sedia a rotelle dopo la tragedia e sottoposta a una lunga serie di interventi chirurgici, costretta a studiare a casa tra una cura e un’altra: anche lei ha finito la scuola con gran merito.
Che la polemica sia ancora aperta sulla verità dei fatti di Beslan, Khasbi Koniev non lo nasconde: «C’è chi dice che le indagini non siano state compiute in modo esauriente e corretto e che non tutti i colpevoli siano stati tirati in ballo». E aggiunge che sono soprattutto le “Madri di Beslan” a volere una risposta esauriente ai loro tanti perché.
Le "madri di Beslan". Di tutto ciò parlo più a lungo con Ella Kessaeva, anima della organizzazione “Voce di Beslan”, appunto tra le più attive “Madri di Beslan”. In un ufficio improvvisato dentro la sua abitazione prepara il materiale per una nuova seduta in tribunale, contro l’amnistia concessa ai poliziotti dell’Inguscezia che, secondo loro, hanno la colpa di aver lasciato passare il gruppo dei terroristi. «Le cause le perdiamo immancabilmente, perché qui in Russia non c’è giustizia nei tribunali». Anche questa volta perderanno.
Ma Ella Kessaeva parla con la serenità di chi è convinta di quello che fa: non a caso era amica di quella Anna Politkovskaja che è stata uccisa nell’ottobre 2006 a Mosca, con tutta probabilità anche per le sue coraggiose inchieste sulle menzogne di Beslan. Parla con cognizione di causa, Ella, perché aveva una figlia nella scuola, sopravvissuta per miracolo al massacro. Mentre le due donne che lavorano ora con lei hanno storie più tragiche: Svetlana Narghieva ha perso una figlia in quei giorni ed Emma Tagaeva ha perso il marito e due figli, cioè tutta la sua famiglia.
Ella Kessaeva sostiene che le autorità non hanno detto tutta la verità sull’assedio e sull’intervento degli agenti speciali. Per confermare le sue accuse fa riferimento alla relazione presentata da Yuri Savelev, deputato del Parlamento russo e membro della Commissione parlamentare d’inchiesta su Beslan, che al termine dei suoi lavori ha rifiutato di firmare la relazione ufficiale, proponendone una alternativa. Il principale punto di contrasto tra la versione ufficiale e quest’ultima consiste nel fatto che Savelev attribuisce l’origine delle prime esplosioni, quelle che hanno scatenato l’assalto finale, non allo scoppio di un ordigno dei terroristi ma al fuoco dei lanciagranate appostati sui tetti dei palazzi di fronte alla scuola. Sarebbero perciò pochi i morti attribuibili all’azione dei terroristi rispetto a quelli provocati dall’attacco finale degli agenti russi.
Ella Kessaeva ora pensa che sarà possibile portare il caso al tribunale di Strasburgo, per far prevalere finalmente la verità. Ma intanto, anche lei si mostra grata della solidarietà internazionale provocata dalla tragedia di Beslan: «Siamo riconoscenti all’Italia che ha reagito per prima all’orrore: non dimenticheremo la fiaccolata di Roma di quelle ore, e il fatto che per primi gli italiani hanno invitato i nostri bambini in vacanza da loro».
Un tocco d’Italia. I funzionari del ministero degli Esteri insistono perché visiti un ulteriore segno della solidarietà italiana, un padiglione di pediatria costruito dalla Protezione civile italiana, col contributo dell’ospedale di Macerata, all’indomani dell’emozione della strage di Beslan e il desiderio tutto italico di offrire ai bambini sopravvissuti e feriti la possibilità di riprendersi, di curarsi, di riabilitarsi dagli handicap di cui soffrivano all’indomani della strage.
Il pediatrico è inserito in un grande parco alberato, in cui prendono posto una decina di padiglioni che dire fatiscenti è poco. Il contrasto col padiglione colorato costruito dagli italiani colpisce. È come un doposcuola, un parco giochi per i bambini, che qui usufruiscono di cure rese anch’esse simili a giochi. Con 380 mila euro, mi spiega Tamerlan Zaseev, funzionario del ministero degli Esteri che non poco s’è dato da fare per la sua realizzazione, per superare le innumerevoli frizioni tra le amministrazioni italiana e osseta, per trovare trucchi atti a risparmiare senza snaturare il progetto. Indubbiamente va fiero di quanto ha fatto per questo reparto.
Ma non è tutto. In uno dei padiglioni più fatiscenti – controsoffitti cadenti, fili scoperti, sporcizia inveterata, cattivo gusto imperante, porte di sicurezza chiuse a chiave, scale come vere barriere architettoniche, vetri rotti e sporchi, porte raschiate e mai pitturate, intonaci con le bolle con la scabbia con la lebbra, macchinari vecchi di cinquant’anni –, la nostra Protezione civile ha riadattato un reparto su due piani. Pare di entrare in un altro mondo, un mondo di soli e lune, fiori e praterie. Un vero miracolo di attenzione ai piccoli. Entro in qualche stanza, dove intere famiglie si trasferiscono col loro bambino malato – pronta accoglienza, interesse per la sindrome del piccolo, lacrime, preghiere, abbracci –, e ci si rende conto che con poco, con pochissimo si può fare del bene, cambiare una bruttura in una bellezza, l’inutile in utile, la morte in vita. Di nuovo, come sempre, più di sempre.
Tamerlan mi segnala anche altri contributi arrivati dall’Italia dopo Beslan: Maria Pia Fanfani e il suo “Sempre insieme per la pace”, con la Fondazione Olivetti (giocattoli, camioncini…); Protezione civile (ospedale pediatrico di Vladikavkaz con 26 posti letto, biciclette per i bambini sopravvissuti, equipaggiamenti medici, riparazione del laboratorio di encefalografia ed elettrotomografia dell’ospedale di Beslan, 30 bimbi in Italia per le vacanze di Natale); Regione Veneto (fondi); Ennio Bordato di Trento e la sua associazione (30 bimbi e 30 genitori per due mesi in Italia); Università di Padova (psicologi a Beslan); COPAM del sen. Provera (borse di studio). Qui degli italiani, prima del dramma di Beslan, ci si ricordava in primo luogo per il loro passaggio disperato, persi nella steppa durante la fase finale della Seconda guerra mondiale… Ora è un’altra cosa.
3 commenti:
molto intiresno, grazie
good start
Non ci sono ormai dubbi che l'azione terroristica di Beslan è stata finanziata da servizi segreti di potenze straniere...
Forse è per questa coscienza "sporca" che l'Occidente non ricorda più Beslan...
Ed è solo un'organizzazione non russa che ha lavorato negli ultimi anni per alleviare le conseguenze sulle vittime. Ed è italiana... La citate nell'articolo.
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