martedì 26 gennaio 2010

"Sull'ampio confine". Un estratto dall'Inguscezia


Dal mio ultimo libro (vedi post precedente) pubblico per gli amici del blog l'intervista con un politico ritiratosi a vita privata in Inguscezia, uno dei luoghi dove la tensione è maggiore in tutto il Caucaso. C'è gente stupenda da quelle parti!


2007. Mi trasferisco da Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord, a Nazran, capitale dell’Inguscezia. Dodici chilometri in tutto e per tutto. Attraverso i territori di Prigorodny contesi tra osseti e ingusci. Gli uomini portano il copricapo bianco e le donne il velo. Nel paese di Čermen la polizia ferma il taxi per un controllo: ogni cinquecento metri una vettura pattuglia l’abitato. Poi la frontiera, le tracce della guerra vicina che per gli agenti è perfida, perché non dichiarata, perché colpisce l’esercito russo di stanza nella regione. Si vedono tank e fili spinati ovunque, il ghigno dei militari non è amichevole. La guardia di frontiera imbraccia un fucile gigantesco; scopre che sono europeo e s’apre in un sorriso alcolico e sdentato. Passata la frontiera, la città è subito lì. Discreta, anonima, non si capisce quanto interessata alla guerra e quanto a farsi i fatti suoi. Ma nell’aria la tensione è palpabile. Aleggia una presenza quasi demoniaca, da queste parti, forse quelle dove Lermontov – morto in duello a poche decine di miglia da qui, a Pjatigorsk – ambientò il suo poema intitolato, appunto, Il demone.

Per capire la situazione di questo lembo di Caucaso russo intervisto Asamat Nalghiev, uno dei più indipendenti e attenti osservatori locali. Lo incontro nella sua decorosa casa di campagna: vestito modestamente, la sua cordialità è evidente. È appassionato di musica lirica – ascolta Rossini e Verdi – e conosce bene i film di Antonioni, Fellini e Bergman. Gli chiedo qualche punto di riferimento. «Bisognerebbe parlare con la gente comune, nei villaggi – mi risponde –. Ieri è stato ucciso un soldato russo, ma in seguito a un pestaggio di innocenti operato dai militari, una donna è stata costretta ad abortire. I medici non comunicano dati oggettivi sull’entità delle ferite provocate sulla gente aggredita: non possono. Il resto è filosofia. Le complicazioni non sono nate oggi, né cento anni fa, ma all’inizio della colonizzazione del Caucaso. Da allora troppi ammazzano in nome di Dio». Si ferma, s’accarezza la barba di due giorni, si lamenta appena un po’ delle sue cardiopatie: «Non voglio e non posso sopportare troppe sollecitazioni, per cui mi sono ritirato a coltivare il mio orto – ammette –. Il mio nome significa “cittadino”, è un’etimologia turca, mi sta bene, visto che tutto quello che succede nel Paese mi fa male. Negli anni Novanta speravamo in un futuro democratico, ma la popolazione inguscia non è abituata a rispettare la legge russa, fatta da governi che non la rispettano».

Asamat Nalghiev è filologo e filosofo. Durante il comunismo, avendo rifiutato la tessera del partito, era stato costretto a lavorare come minatore nel Kazakhstan e in Jakuzia. Poi, una volta tramontato il socialismo reale, è stato eletto per un decennio deputato della Repubblica d’Inguscezia, assumendo anche diversi incarichi di governo. «Ma in tutta la mia vita ho letto – cerca di scusarsi per i suoi due “mestieri” – e, seppur in misura minore, ho dipinto. Questa è la mia ricchezza. Diocleziano aveva lasciato il palazzo per dedicarsi ai suoi pomodori. A chi cercava di riportarlo al suo ruolo, egli decantava la bellezza dei suoi cavolfiori. L’orticoltura è più interessante della politica, e la sera mi corico con la coscienza pulita».

Cerco di portarlo ai morti ammazzati, alle tensioni quotidiane. A fatica. Il centro del wahhabismo s’è spostato dal Daghestan e dalla Cecenia all’Inguscezia? «Negli attentati di questi ultimi tempi si trovano sempre le impronte dell’orso», mi risponde enigmatico. Cioè? «Non sempre i radicali sono i soli responsabili; anche le truppe di occupazione russe hanno le loro colpe. Che il “trasloco” dei terroristi abbia avuto luogo, non lo nego. Kadyrov in Cecenia ha eliminato le influenze religiose radicali: già suo padre, al tempo di Maskhadhov, aveva fatto fuori non pochi wahhabiti. Il potere inguscio ora è debole e la gente torbida si sposta dove può operare con impunità; se ci fosse ancora il precedente presidente, Ruslan Aushev, militare e cavaliere, questa emigrazione funesta non avrebbe avuto luogo. Aveva avuto il coraggio di trattare a Beslan coi terroristi, aveva combattuto in Afghanistan, non permetteva stupidi atti di libero arbitrio, non voleva che l’anarchia prevalesse».

S’interrompe, Asamat Nalghiev, filosofeggia nella sua mente: «Il nostro Paese è quasi al cento per cento schiavo di Putin. Questo ha dei riflessi pesanti, c’è una gran paura in giro. Per questo con voi nessuno parlerebbe, salvo chi ha molto sofferto e quindi non ha nulla da perdere. Come il sottoscritto. La paura provocata dallo stalinismo è tornata. Il presidente Ziazikov (defenestrato poi dagli stessi russi nell’ottobre 2008, ndr) è debole, non è amato e si piega al volere di Mosca». Perché tanti attentati contro i russi? «La Russia imperiale da molto tempo ha deciso chi nel Caucaso sia amico e chi nemico – ci risponde –. Il popolo inguscio è tra questi ultimi, anche per cause religiose. Ora prende piede lo sciovinismo. Il grande nazionalismo russo teme i nostri piccoli nazionalismi». Pace nel Caucaso? Come? «Per prima cosa, bisognerebbe che le autorità avessero una vera volontà di pace. I bolscevici avevano fatto qualcosa di buono, cioè avevano messo tutti allo stesso livello, volendo creare l’homo sovieticus. Ma oggi il potere non vuole più la pace». E gli ingusci, la pace la vogliono? «C’è un problema di revanscismo – ammette –. Vogliono ancora le terre tolte loro dai bolscevichi nel 1944, attualmente in Ossezia. Ma bisogna tener conto della realtà, non solo del passato. Il fondamentalismo islamico vuole farci tornare al VII secolo, ma così facendo entreremmo in un vicolo cieco. Va detto, a onor del vero, che è molto difficile gestire una società multietnica; è molto più facile gestirne una multireligiosa».

Parliamo delle qualità e dei difetti del popolo inguscio. «Montesquieu parlava di “determinismo geografico” – mi risponde –. Nel XVIII secolo l’impero russo aveva cercato di cancellare alcune etnie. Difficile scalzare però un popolo fiero come quello inguscio, con forti tradizioni culturali prima che politiche e religiose (siamo musulmani solo da 150 anni). Il popolo è regolato soprattutto da una legge non scritta, l’adat. Questo è in effetti uno dei limiti del Paese, che deve vivere tra tre corpus legislativi: l’adat, appunto, la shari’a e la legge russa. Tra questi codici l’inguscio sceglie di volta in volta quello che a lui conviene». La voce di Nalghiev prende venature epiche: «Voglio morire in questa amata terra. Ricordo i nomi dei miei antenati fino alla quattordicesima generazione: un inguscio che non conosca i suoi fino alla settima è una vergogna. Ma non abbiamo una storia scritta credibile; sì, qualcuno comincia a scribacchiare, ma la storiografia qui è serva della politica. Come altrove, d’altronde. Mi ha sempre sorpreso il fatto che nella civilissima Germania dei Goethe e dei Beethoven d’improvviso spuntasse un Hitler, o che nella culla dei Raffaello e dei Michelangelo vedesse la luce un Mussolini. Si capisce come le tradizioni democratiche in Europa non fossero allora stabili. Perché ora non darci tempo?».
Che rapporti hanno i musulmani coi cristiani? «Non esiste nessun problema di convivenza, anche se qui in Inguscezia ci sono solo un paio di chiese ortodosse. Certo, a volte il nemico russo appare anche cristiano… A me interessano poco i dati del passaporto, che invece interessano a chi ha una visione fondamentalista della vita. Guardo negli occhi una persona e capisco se mi è amico o nemico. Anche se è nemico, comunque, lo rispetto». Fa caldo, Asamat Nalghiev accarezza un cagnolino nero, poi riprende come un modesto Socrate inguscio: «Kipling era razzista quando scriveva del “peso che portano i bianchi”, cioè della missione di civiltà che i bianchi avrebbero avuto nei confronti delle altre razze. Ma chi ha mai chiesto loro di assumersi l’onere di questa missione? Gli indù? Meglio non prendere su di sé ruoli messianici. Le persone dovrebbero studiare sé stesse invece di insegnare agli altri la “vera” civiltà».

Che epitaffio vorrebbe sulla tomba? «Tolleriamoci gli uni gli altri. Non cercare di cambiare gli altri, ma cambia te stesso. Questo è cristianesimo e Islam insieme».

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