sabato 9 gennaio 2010

DMZ, la paranoica linea che divide la Corea in due


Visita ad una delle zone più drammaticamente conflittuali del mondo intero. Mentre la dittatura nordcoreana tiene il mondo in sospeso con la sua minaccia atomica.

Seduto a riscaldarmi (fuori il gelo ha raggiunto i 12 gradi sotto zero) in un ristorantino sulla frontiera meridionale della zona demilitarizzata, di fronte al largo fiume gelato Imjin-gang e dinanzi a un ponte distrutto durante la guerra di Corea e ricostruito a duecento metri di distanza ma inutilizzato perché va verso Nord, rifletto sulla guerra. Anzi, sulla paranoia della guerra. Sono appena tornato da un giro nella DMZ (Demilitarized Zone): così i coreani del sud chiamano familiarmente la zona demilitarizzata, per loro un incubo, un orizzonte, un esame di coscienza perenne, oltre che una speranza lontana. Più precisamente mi sono recato a Panmunjom, nella JSA (Joint Security Area), la metà meridionale della “zona comune di sicurezza”, il luogo dove la DMZ, lunga 241 chilometri, sostanzialmente lungo il 38° parallelo, e larga 4 chilometri, si restringe fino ad una ventina appena di metri di larghezza, la misura di cinque baracche militari – tre azzurre e due grigie – nelle quali hanno avuto luogo gli incontri della MAC (la Military Armistice Commission, i militari amano le sigle!), sebbene in modo saltuario, per via delle alterne vicende e degli alterni umori che si vivono soprattutto nella Corea del Nord e del suo dittatore Kim Jong Il.

È stata evidentemente paranoia la guerra del 1950-1953, di cui l’attuale emergenza nucleare non è che una delle tante logiche conseguenze. È paranoia il doppio muro di filo spinato che spacca in due il “Paese del calmo mattino” e che sicuramente la stragrande maggioranza delle due parti della Corea detesta e vorrebbe che fosse abbattuto. C’è un progetto, o forse solo un sogno di tanti, a Sud come a Nord: che la DMZ, una volta ridonata al pubblico calpestio e terminata la necessaria bonifica dalle innumerevoli mine sparse lungo di essa, diventi un grande e originale parco nazionale, con un lungo sentiero che possa così unire il Mar di Corea con l’Oceano Pacifico, ricordando nel contempo proprio la paranoia della guerra.

Si va in visita turistica, si proprio così, nella DMZ, e questa già di per sé è una buona novella, perché ciò significa che la tensione tra le due parti è sopportabile. Certo, ogni visita può essere interrotta in ogni momento e raramente il tour alla fine risulta completo, perché per il minimo sussulto che viene dal Nord, anche un sospiro del dittatore malato, anche un dispaccio di agenzia su un presunto esperimento nucleare, ecco che tutto si blocca. La tensione è reale, in effetti. La tensione si tocca e si vede, la si avverte nei gesti secchi dei soldati della forza d’interposizione delle Nazioni Unite, l’UNCMAC, la si coglie nella rigidità assoluta delle procedure della visita stessa. Diciamo pure la paranoia, non la tensione. Come mai i coreani sono sottoposti a questa prova infinita del vivere costantemente sotto la spada di Damocle della bomba atomica, , della dittatura, della separazione “dia-bolica”? È una sfida e un mistero, che taluni speravano si svelasse vent’anni fa, con la caduta dell’Unione Sovietica e quella del Muro di Berlino. Ma non è stato così, per il fatto che il comunismo asiatico non è il marxismo-leninismo all’europea. È altro, come conferma l’attuale deriva capitalistica di alcuni di questi regimi, come quello cinese o quello vietnamita. Nel 1989 non è poi successo nulla, né nel 1990, nel 1995, nel 2000 e nel… 2010!

Il breefing nella sala d’incontro della JSA, alle cui pareti pendono delle immagini in bianco e nero del conflitto di sessant’anni fa, con gli orrori e le perfidie di ogni guerra. Il racconto che lo speaker di turno ci propone è quello di una cronaca di divisioni e di odio, maturata all’interno di uno stesso popolo, quindi coi contorni di una guerra civile, ma sotto le spinte contrapposte di giganti vicini e lontani della geopolitica di allora.

La visita più interessante si rivela certamente quella alle baracche militari azzurre – ad una sola a dire il vero, quella centrale –, che sono state deposte dalla diplomazia internazionale in questo strettissimo passaggio ravvicinato della linea di demarcazione che viene marcata da una parte e dall’altra da una sinuosa linea gialla che ha il senso di una diabolica separazione, ma anche di una speranza di pace, perché in questa baracca almeno qualcosa di buono la diplomazia è riuscita ad ottenere: ci si parla, a singhiozzo, ma ci si parla. La sala dei negoziati in fondo non è altro che una casamatta militare senza molto interesse. Si può farsi fotografare accanto alle belle statuine dei soldati Onu, ma non giragli attorno o rivolgersi loro con affetto o con rigetto.

Oltre le baracche azzurre si scorge un unico soldato nordcoreano, impettito a guardia di un edificio brutto e cadente, chissà da quanto non restaurato, cui è stato dato il nome di Panmun-gak, che vuol dire “padiglione dell’accoglienza”. Contrasta non poco con gli edifici della metà meridionale della JSA, di vetro, cemento e metallo, originali e anche ben congegnati dagli architetti, soprattutto la Freedom House, la casa della libertà. Paranoia nella paranoia, noi turisti siamo invitati a salire su una piattaforma che sembra un tempietto da dove – per tre minuti d’orologio, senza nemmeno un secondo di prolungamento – ci viene generosamente concesso di scattare tutte le foto che vogliamo (ma non ci sono concessi obiettivi superiori ai 100 millimetri…). La cosa più buffa è che ci tocca salire come militari, in fila per due, e su un percorso assolutamente scivoloso tanto è gelato!

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