venerdì 29 gennaio 2010

Il condominio di via Shogentsukova


Ancora un estratto dal mio libro sul Caucaso. Ho percorso tutti i piani di un edificio a Nalcik, capitale della Cabardino-Balcaria, uno spaccato dell'intera regione, che dimostra come la convivenza tra etnie e tra religioni diverse sia difficile ma possibile.

Natalia Belikh è una giornalista felice: lo dice e lo mostra con un largo sorriso quasi infantile, anche se i quaranta li ha passati. Lavora per la Cabardino-Balcaria Pravda, un giornale che ha cinque uscite settimanali, generalista, la voce del potere. Mi racconta di sé: «Sono russa – spiega –, ma con radici polacche, ucraine, cosacche ed anche locali. Ero medico pediatra, ma ho cambiato lavoro per una serie di circostanze: lavoravo sodo ma guadagnavo poco, solo 1200 rubli, mentre al giornale me ne offrivano 3000; mio marito, anche lui, lavorava molto ma guadagnava poco, perché è un uomo onesto, e di figli ne avevamo già due; infine, lavoravo con orari pazzeschi e rischiavo grosso, perché mi occupavo di malattie infettive. Avevo cominciato a scrivere delle note di pediatria per un quotidiano, proprio per sentire che il mio lavoro in qualche modo era utile alla gente. Un amico giornalista mi ha detto che quei miei pezzi erano belli, e che avrei potuto fare la cronista. Ed eccomi qui, ormai da sette anni».

Mi invita a casa sua. Fa sera. Ad accogliermi c’è il figlio minore Denis, un bellissimo bimbo di una decina d’anni, biondo come una pannocchia, intraprendente e creativo. Mi trascina a far conoscenza con le quattro impiegate di un negozio d’alimentari attiguo al condominio: qui presta servizio gratuitamente per esporre la merce sugli scaffali. Ci unisce il tifo per il Milan, ovviamente. Il condominio ha un portone verde di metallo che chiude male, è graffiato, mostra le saldature mal rifinite, ha due o tre numeri civici scritti e poi cancellati. I cardini girano a fatica, un paio di essi sembrano volersi sganciare dal muro. Le scale hanno una ringhiera metallica e i gradini in conglomerato hanno perso pezzi più o meno evidenti. I fili della luce e del telefono salgono e scendono senza logica apparente, s’agglutinano e si separano, si annodano e s’inerpicano, creando incredibili arabeschi sui muri. Le porte? Non ce n’è una uguale alle altre. Anche se da queste parti si lasciano spesso aperte. Qualche vetrata illumina la tromba delle scale. Il tutto avvolto in un intonaco dipinto d’un colore indefinibile, lo stesso che ricopre la facciata della casa: ogni inquilino ha ricoperto il proprio balcone con infissi o maioliche spaiate, o con grate dalle forme bizzarre.


Eppure questo condominio ha molto da dire a tutta la Cabardino-Balcaria, a tutto il Caucaso settentrionale, all’Europa, a tutto il pianeta. Addirittura. Perché qui non c’è quel melting pot alla statunitense che lascia tutto così com’è, né l’integrazione à la française che obbliga a cambiar di cultura, e nemmeno una convivenza londonian in cui si conservano le proprie abitudini sotto parvenze di egualitarismo. «Qui c’è reale integrazione», mi spiega Natalia. E, per dimostrarmelo, mi fa aprire le porte degli appartamenti.


Al quinto piano abitano due donne sole. Valeria è russa; il marito, che l’ha lasciata, è cabardo. Ha due figli a Rostov. Per 42 anni ha lavorato nelle ferrovie, si occupava di scambio di merci: «Qui a Nalcik si vive bene, perché la vita costa meno che nel resto della Russia, la gente è gentile ovunque e c’è molto verde. Non a caso la gente chiama Nalcik “la bella addormentata”. Nel condominio siamo veramente amici, come appare evidente ai funerali, alle feste, quando uno di noi ha bisogno di qualcosa. Se manca lo zucchero, qualsiasi coinquilino me lo darebbe». Valeria appare un po’ triste e sola: «Ma gli amici del condominio mi sono vicini. Quando c’è stato l’attacco del 13 ottobre 2005, mio figlio poliziotto mi ha telefonato ingiungendomi di non uscire di casa. Ma da Tamara sono andata lo stesso. Nalcik non è mica Grozny!».


Tamara, appunto, è cabarda. Ci accoglie nella sua decorosa camera da letto, profumata direi, dopo essersi trascinata fino alla porta: «Noi apriamo sempre a tutti», commenta. È malata Tamara, e molto, per un ictus subito due anni dopo la morte del figlio, deceduto per una leucemia contratta a Chernobyl, dove era stato mandato a lavorare per un anno e mezzo, come militare, allorché si era ancora nel primo periodo post-sovietico, assai confuso. E per giunta il marito l’ha lasciata quando s’è ammalata e immobilizzata. «Con l’aiuto dei vicini riesco però a muovermi, a fare qualcosa. Sono molto grata a tutti loro, sono diventati i miei familiari».

Sorride, Tamara, coi suoi denti neri corrosi dalla carie: «La vita è stata difficile, ma sono musulmana e credo in Dio. Lo prego e lui mi dà conforto». Racconta dello scoppio della guerra in Cecenia, nel 1994: «Mio figlio si trovava a San Pietroburgo, era a cena con amici. Al ristorante ricevette la notizia: ai musici chiese, pagandoli, di suonare una musica funebre. Gli amici s’inquietarono e lo rimproverarono, finché lui spiegò il perché di quel gesto. Un compagno gli disse: “Non vivrai molto a lungo se ti preoccuperai così dei tuoi vicini”. Ma quello che succede ai ceceni è anche per me un gran dolore, perché sono miei fratelli». Tamara mi mostra una foto del figlio: «Non ha voluto dirmi che era ammalato. Finché un giorno ho visto che prendeva delle medicine. Ho scritto il nome di quella scatola su un foglietto e sono andata dal medico per sapere di cosa si trattasse. L’ho saputo e ho pianto. Ma l’ho anche ammirato. Dio m’ha dato questo figlio meraviglioso e Dio me l’ha tolto. Lodato sia il suo nome».


Scendo al quarto piano; c’è un certo via vai nel condominio per via della mia presenza notata da tutti. Sul pianerottolo, appartamento n° 43, abita la signora Rosa, con i nipoti Kurmanda, Marika e Igor, balcari. I genitori dei bimbi sono fuori città. Rosa mi accoglie come fossi della famiglia. Mi offre tè e pasticcini nel salotto come sempre “tappezzato di tappeti”. «Bisogna dire che non viviamo male – comincia così –, perché non si può offendere Dio: ci sono ricchi e poveri da noi, e noi non siamo certo ricchi ma nemmeno poveri. Sono balcara, ma qui nella pianura mi ci trovo bene, a differenza di altri che non sono soddisfatti della loro vita». Crede? «Non vado in moschea, ma prego cinque volte al giorno, anche se durante il comunismo avevo smesso di farlo, perché non volevo contravvenire agli ordini del potere. I miei bambini erano piccoli, ma gli dicevo comunque che Allah è l’unico Dio». Il condominio? «Quando dei vicini cabardi sono partiti a vivere a Mosca, abbiamo tutti pianto. E non manchiamo mai ai funerali dei familiari, nella chiesa o alla moschea, là dove la gente viene accolta in cielo».


Terzo piano. Alexandr è russo mentre Svetlana, sua moglie, è cabarda. Sono gentili e riservati. Sono ancora innamorati, dopo 33 anni di matrimonio. Hanno un figlio che vive a Mosca, dove loro stessi hanno abitato fino a vent’anni fa, e un nipotino – inutile dirlo – amatissimo, come testimoniano le foto appese ai muri dell’appartamento semplice e ordinato. «Venivo qui in vacanza – dice Alexandr – e ho conosciuto mia moglie. Ci siamo sposati e lei non voleva vivere altrove che qui. Io sono ortodosso, lei è musulmana, ma non abbiamo mai avuto problemi, c’è parità assoluta. E anche nel palazzo: alle feste comandate degli uni o degli altri c’è un andirivieni nelle scale, perché ci si fa regali. Ci si intrattiene negli appartamenti di chi festeggia, si mangia, si beve, ci si raccontano le nostre cose, paure, vicende». Cabardi e balcari sono nemici? «Mai, mai, mai – mi fa Svetlana –. Il nostro popolo non abbandona chi è nel bisogno».


Lo scampanellìo nell’appartamento attiguo a quello di Alexandr e Svetlana resta senza risposta. Qui abita una coppia di ceceni, con i suoi tre figli. Ma in questi giorni sono a Grozny, loro città di origine. Prima di partire hanno lasciato un biglietto sapendo della mia venuta: «Ci dispiace, ma dovevamo partire perché la mamma sta male. Se fossimo rimasti, le avremmo detto che qui il portone può rimanere sempre aperto, perché nel nostro condominio la pace è l’unica legge. Ci vogliamo bene, non come accade dalle nostre parti».


Scendo al secondo piano. Due bimbetti hanno cominciato a seguirmi, ma le mamme li richiamano: «Lasciatelo lavorare, venite qua», li redarguiscono, seppur con divertita dolcezza. Suono un campanello appeso a un filo che sembra doverlo lasciar cadere da un momento all’altro. Elena e il figlio Mohammed, balcari, vivono qui. Il figlio, avrà quarant’anni, è un ottimo manuale, e ha reso armonioso l’appartamento. Lei era addirittura una principessa, la sua famiglia veniva dalle pendici dell’Elbrus. «Siamo qui dalla nascita – mi dice –. Mio papà era morto in guerra e due fratelli deportati erano morti di stenti. Ma non ho mai accusato i cabardi di vigliaccheria, questo no». Mohammed parla invece di politica, del Caucaso settentrionale: «A parte Ossezia del Sud e Cecenia, le cose vanno ormai abbastanza bene un po’ ovunque. Qui non può succedere quel che accade in Cecenia, anche se qualcuno cerca ancora di far sì che qualcosa salti per aria». Precisa Elena: «Mio marito era osseto, mio cognato è georgiano, mia sorella ha sposato un moldavo, mia cugina un daghestano, mia nipote un tedesco! Come possiamo farci la guerra quando siamo tutti parenti? E anche la religione non può scatenare la guerra; siamo musulmani, ma non sappiamo nulla di Islam. Ci ricordiamo di Dio solo quando c’è bisogno».


Dall’altro lato del pianerottolo ci sono Damal e Farisat, balcari, ultraottantenni, lui del 1926, lei del 1929. «Ho perso tre degli otto fratelli nella deportazione – mi spiega –, mentre io mi sono salvato. Poi ho lavorato per 16 anni in miniera e dal 76 sono pensionato per aver fatto un lavoro duro come il minatore. Ma non posso rimanere in panciolle e allora ho trovato un impiego alle Poste. Ho fatto cinque figli, 26 nipoti e pronipoti. Poi, 19 anni fa, mi sono risposato essendo rimasto vedovo, e sono sceso dalla montagna qui in città. Non mi lamento proprio della vita». Gli chiedo se abbia qualcosa contro i cabardi per via della deportazione: «Assolutamente no, perché i cabardi erano con noi e alcuni di loro sono pure stati deportati assieme a noi, perché scambiati per balcari. Quando siamo partiti hanno occupato tante delle nostre case, ma quando siamo tornati le hanno liberate in poco tempo. Le autorità ci avevano raccomandato di non pretendere la restituzione delle nostre abitazioni. Non bisognava far rumore. Ma quasi tutti ce le hanno restituite. Nel mio villaggio c’erano ancora 47 mila pecore, mucche a migliaia e 14 caseifici. Ci siamo rifatti una vita al ritorno». Il condominio? «La regola è aiutare chi è nel bisogno. La nostra casa è una famiglia unica». E la moglie annuisce.


La serata si conclude, ovviamente al quarto piano, a casa di Natalia, col marito Alexander e i figli Roman e Denis. Vivono in un piccolo appartamento senza pretese, che il marito carpentiere ha adattato in larghezza (un terrazzino) e in altezza (un mezzanino). Parliamo di tutto, dalle attese dei giovani alla sete spirituale della gente, dal loro matrimonio religioso non ancora celebrato (lui non crede, lei è cristiana, i figli sono battezzati) alla naturale tendenza della loro famiglia a fungere da catalizzatore del condominio. Mi mostrano foto di montagna, aprono il loro cuore con una generosità commovente. Loro, russi, sono il vero elemento catalizzatore dell’intero condominio. Roman racconta dei suoi studi a San Pietroburgo e della sua preferenza per la vita semplice di Nalcik rispetto a quella delle grandi città, piene di gente drogata, alcolizzata, violenta. «Meglio la Cabardino-Balcaria – dice –, pur con tutti i suoi problemi e la sua miseria».


Nell’attesa del sonno riparatore, mi tornano in mente alcune righe scritte da Joseph Roth nel suo Viaggio in Russia: «L’intera evoluzione del genere umano può essere osservata nel Caucaso in individui ancora viventi: il cammino dell’abitante primitivo delle caverne all’agricoltore sedentario, dal nomade bellicoso al mite pastore, dal cacciatore selvaggio al duchoborco pacifista, che è vegetariano per convinzione religiosa…».

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