Viaggiando tra Paesi in vertiginosa crescita economica, viene da riflettere sulla grave situazione economica, culturale e sociale che vive il Vecchio continente. Bisogna aprirsi per sopravvivere.
Ciò che stupisce nello sviluppo della Cina di questi ultimi decenni è l’incredibile vitalità che i cinesi riescono a mantenere in patria e fuori dai loro confini. Pensano in grande e pensano in fretta. Anzi, agiscono in grande e agiscono in fretta, arrivando solo ed eventualmente in un secondo momento a razionalizzare i loro comportamenti. È inutile pensare che i cinesi abbiano strategie commerciali e politiche a lungo termine: i loro obiettivi sono tutti a breve termine – tranne uno, conquistare il mondo –, e questo li rende duttili nelle loro scelte e quindi capaci di adattarsi in brevissimo tempo ai cambiamenti. Ciò viene confermato dal fatto che in fondo il corpus legislativo cinese è ancora di dimensioni molto ridotte, senza che tuttavia ciò provochino soverchi problemi. In fondo il business cinese è libero dai lacci e laccioli che legano il business europeo e, in misura minore, quello statunitense. Poche leggi, gestite invece da un esecutivo dalla vastissima libertà d’azione (Berlusconi sogna!), e dalle incredibili capacità propositive e repressive. Un governo che non va troppo per il sottile quando si tratta di reprimere o, al contrario, di promuovere movimenti sociali, attività capitalistiche, riforme sociali. A Pechino questa Cina si eleva come si alzano grattacieli
Penso a tutto ciò nell’aeroporto di Pechino, in attesa di partire per la Corea. È il quarto Paese d’Estremo Oriente che mi trovo a visitare in questo passaggio d’anno. Un mondo, è quello che sto visitando, che ha impresso un’accelerazione straordinaria all’economia internazionale. Sta cercando di trasferire anche in campo culturale e politico questa sua potenza creatrice, ma fa una certa fatica, assai più di quanto non sperimenti nel business. In questo senso l’Europa potrebbe dare un contributo straordinario all’intero sistema mondiale; se solo riuscisse a parlare con una voce univoca; se solo non pensasse di avere una netta superiorità culturale sulle altre civiltà del mondo; se solo non relegasse la religione ad accessorio del laicismo; se solo potesse immaginare che altre forme di gestione del potere, oltre alle nostre democrazie parlamentari (e mediatiche) potessero essere lecite, e anzi migliori della stessa democrazia in contesti diversi dal nostro; se solo non riducesse il pensiero ad una serie di “ismi” senza futuro. L’Europa sta morendo di scarsa natalità e di incertezza di pensiero e di azione. Per paura tende a chiudersi a riccio, pensando così di difendere le proprie prerogative e la propria ricchezza, oltre alla propria presenza altezzosa nello scacchiere mondiale. Demonizza chi è diverso da sé e non è capace di capire che invece dovrebbe aprirsi allo straniero, e che nell’apertura stessa potrebbe trovare la sua salvezza, una via di trasmissione della propria cultura, della propria civiltà, della propria grandezza. È riconoscendo la propria debolezza, la permeabilità delle proprie frontiere, che il Vecchio continente potrebbe salvare la sua propria stessa esistenza. Solo facendosi attenta e recettiva alla diversità altrui, solo mettendosi in posizione di umile disposizione potrebbe far sì che la sua cultura permei, nei suoi migliori valori, le culture che la stanno poco alla volta “occupando” con le loro immigrazioni di operai e contadini, ma in seguito anche di ingegneri, di medici, di informatici, di imprenditori, di intellettuali.
Di tutto questo mi viene da pensare dopo venti giorni trascorsi in queste terre di Estremo Oriente, alla ricerca di quel che si muove nello scacchiere mondiale. Qui tutto si muove, panta rei, qui nascono imprese che invadono il mondo in pochi anni di esistenza, qui si produce molto e si producono cose nuove. Qui si sta spostando la Storia, che non ha più come teatro principale di sviluppo le terre che si affacciano sull’Atlantico, ma quelle del Pacifico. Basta guardare la gente in questi aeroproti, in queste strade, in questi caffè, nei negozi e nelle metropolitane per capire che questa gente ha messo in moto energie enormi, e che ha trovato un modo di moltiplicare le singole forze in una condivisione di intenti reale e realistica. Che sia il business a muovere tutto o quasi è un dato di fatto, così come è certo che esso nasce dalle ceneri di un comunismo che in fondo ha conservato il suo lato totalitario lasciando per strada quello ideologico. Provate a parlare di “rivoluzione culturale” a Pechino o ad Hanoi: la vergogna si dipingerà sui volti dei vostri interlocutori.
Si pensa in grande, quindi, in Cina, in Corea, in Vietnam. Basti osservare lo sviluppo delle città, in particolare l’evolversi delle skyline delle metropoli. Da morire di stupore! Com’è possibile che le architetture più ardite, salvo forse qualche eccezione nei ricchi feudi del petrolio, ormai vedano la luce quasi esclusivamente in questi Paesi di Estremo Oriente? Selve di grattacieli dalle forme più ardite, interi quartieri distrutti e ricostruiti nello spazio di pochi mesi, enormi fabbriche che spuntano come funghi nelle periferie delle metropoli asiatiche. E via dicendo. Nulla sembra loro impossibile, le imprese più straordinarie riescono ad essere portate a termine in tmpi addirittura minori rispetto a quanto ipotizzato. Perché la novità è il motore della creatività della ragione, non la conservazione, non il perpetuarsi delle gerarchie stabilite di un potere che mira solo al mantenimento dei propri privilegi. Così vanno le cose in Estremo Oriente. Certo, lo sviluppo economico impetuoso degli ultimi decenni porta con sé disuguaglianze, ingiustizie, scompensi nella crescita economica tra zone urbane e zone rurali. Ma non si può concentrarsi su questi scompensi, denunciarli con la puzza sotto il naso senza vedere quel che invece funziona, senza rendersi conto di quel che l’Estremo Oriente crea. Siamo ad un bivio, ormai.
Penso a tutto ciò nell’aeroporto di Pechino, in attesa di partire per la Corea. È il quarto Paese d’Estremo Oriente che mi trovo a visitare in questo passaggio d’anno. Un mondo, è quello che sto visitando, che ha impresso un’accelerazione straordinaria all’economia internazionale. Sta cercando di trasferire anche in campo culturale e politico questa sua potenza creatrice, ma fa una certa fatica, assai più di quanto non sperimenti nel business. In questo senso l’Europa potrebbe dare un contributo straordinario all’intero sistema mondiale; se solo riuscisse a parlare con una voce univoca; se solo non pensasse di avere una netta superiorità culturale sulle altre civiltà del mondo; se solo non relegasse la religione ad accessorio del laicismo; se solo potesse immaginare che altre forme di gestione del potere, oltre alle nostre democrazie parlamentari (e mediatiche) potessero essere lecite, e anzi migliori della stessa democrazia in contesti diversi dal nostro; se solo non riducesse il pensiero ad una serie di “ismi” senza futuro. L’Europa sta morendo di scarsa natalità e di incertezza di pensiero e di azione. Per paura tende a chiudersi a riccio, pensando così di difendere le proprie prerogative e la propria ricchezza, oltre alla propria presenza altezzosa nello scacchiere mondiale. Demonizza chi è diverso da sé e non è capace di capire che invece dovrebbe aprirsi allo straniero, e che nell’apertura stessa potrebbe trovare la sua salvezza, una via di trasmissione della propria cultura, della propria civiltà, della propria grandezza. È riconoscendo la propria debolezza, la permeabilità delle proprie frontiere, che il Vecchio continente potrebbe salvare la sua propria stessa esistenza. Solo facendosi attenta e recettiva alla diversità altrui, solo mettendosi in posizione di umile disposizione potrebbe far sì che la sua cultura permei, nei suoi migliori valori, le culture che la stanno poco alla volta “occupando” con le loro immigrazioni di operai e contadini, ma in seguito anche di ingegneri, di medici, di informatici, di imprenditori, di intellettuali.
Di tutto questo mi viene da pensare dopo venti giorni trascorsi in queste terre di Estremo Oriente, alla ricerca di quel che si muove nello scacchiere mondiale. Qui tutto si muove, panta rei, qui nascono imprese che invadono il mondo in pochi anni di esistenza, qui si produce molto e si producono cose nuove. Qui si sta spostando la Storia, che non ha più come teatro principale di sviluppo le terre che si affacciano sull’Atlantico, ma quelle del Pacifico. Basta guardare la gente in questi aeroproti, in queste strade, in questi caffè, nei negozi e nelle metropolitane per capire che questa gente ha messo in moto energie enormi, e che ha trovato un modo di moltiplicare le singole forze in una condivisione di intenti reale e realistica. Che sia il business a muovere tutto o quasi è un dato di fatto, così come è certo che esso nasce dalle ceneri di un comunismo che in fondo ha conservato il suo lato totalitario lasciando per strada quello ideologico. Provate a parlare di “rivoluzione culturale” a Pechino o ad Hanoi: la vergogna si dipingerà sui volti dei vostri interlocutori.
Si pensa in grande, quindi, in Cina, in Corea, in Vietnam. Basti osservare lo sviluppo delle città, in particolare l’evolversi delle skyline delle metropoli. Da morire di stupore! Com’è possibile che le architetture più ardite, salvo forse qualche eccezione nei ricchi feudi del petrolio, ormai vedano la luce quasi esclusivamente in questi Paesi di Estremo Oriente? Selve di grattacieli dalle forme più ardite, interi quartieri distrutti e ricostruiti nello spazio di pochi mesi, enormi fabbriche che spuntano come funghi nelle periferie delle metropoli asiatiche. E via dicendo. Nulla sembra loro impossibile, le imprese più straordinarie riescono ad essere portate a termine in tmpi addirittura minori rispetto a quanto ipotizzato. Perché la novità è il motore della creatività della ragione, non la conservazione, non il perpetuarsi delle gerarchie stabilite di un potere che mira solo al mantenimento dei propri privilegi. Così vanno le cose in Estremo Oriente. Certo, lo sviluppo economico impetuoso degli ultimi decenni porta con sé disuguaglianze, ingiustizie, scompensi nella crescita economica tra zone urbane e zone rurali. Ma non si può concentrarsi su questi scompensi, denunciarli con la puzza sotto il naso senza vedere quel che invece funziona, senza rendersi conto di quel che l’Estremo Oriente crea. Siamo ad un bivio, ormai.
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