lunedì 4 gennaio 2010

Hanoi, la città che inventa i colori



Quattro passi nella capitale vietnamita, una città che sa creare un ambiente adatto all’elevazione dell’anima. Attraverso mille espedienti.

Comincia l’anno cristiano, ma anche ad Hanoi si festeggia alla grande. Una breve vacanza viene concessa a tutti dal governo, anche se totalmente priva di ogni riferimento al Dio fatto uomo: trionfa invece il contrario del mistero, e cioè l’evidenza del possesso. Materialismo. Così vanno le cose in questo mondo che pare voler fare a meno di Dio.

Piove, le strade sono caotiche al limite del blocco totale. Attorno al lago di Hoan Kiem, la municipalità ha organizzato una sorta di festival dei fiori, conferendo involontariamente alla città un po’ di quei colori che altrimenti quest’oggi umido e grigio non avrebbe. C’è folla, folla grande, tanto che è quasi impossibile camminare a un’andatura appena decente. Lo sport degli abitanti della capitale è oggi diventato quello di farsi immortalare coi telefonini dinanzi alle composizioni floreali. Gli stranieri sono quasi assenti, per cui più del solito ricevo le attenzioni della gente e la loro voglia di farsi fotografare assieme a me. Ci sono molti militari, sia a guardia delle “isole floreali”, sia a braccetto delle loro donne. Le loro divise verde abete e rosso scarlatto sono più verdi delle foglie e più rosse delle stelle di Natale.

In mezzo al lago si mostrano un paio di isolotti. Il primo, più piccolo, ospita una irraggiungibile torre grigia e nera, Thap Rua, la torre della tartaruga, certamente potrebbe essere curata meglio. L’altro isolotto, invece, è legato alla terra ferma da una delle più note attrazioni di Hanoi, il “ponte rosso” ad arco che pare voler sfidare la nebbia che sale dal lago e che pare voler avvolgere ogni cosa, ogni persona, ogni avvenimento piccolo o grande che sia. Un arco rosso sul quale grandi e piccini paiono volersi fare immortalare per l’eternità. Oltre il ponte, sul quale è più che complicato farsi largo, c’è uno dei tanti bei templi buddhisti di Hanoi, quello di Ngoc Son, il tempio della montagna di giada, che pure ha una sua storia che si estende dal XIII ai XIX secolo, e che celebra divinità della cultura cinese e di quella vietnamita: all’ingresso una sorta di obelisco è in realtà la rappresentazione di un pennello che serviva «per scrivere nel blu del cielo». Osservo la gente pregare, congiungere le mani almeno. E dubito che il buddhismo sia una filosofia, e non una religione. Il rosso rifulge ovunque, nonostante l’oscurità e la nebbia, malgrado la quasi totale assenza di luce artificiale. La gente prega e l’istante seguente si fa fotografare come se non ci fosse transizione possibile tra l’elemento cultuale e quello ludico della vita. Forse c’è molto da imparare da questa disposizione fondamentale del vietnamita del Nord. Anche se può sembrare irriverente, lo stesso fervore religioso lo trovo nella cattedrale cattolica, dedicata a San Giuseppe, a due passi dal lago Hoan Kiem, quest’oggi gremita di gente, è Capodanno e bisogna festeggiare adeguatamente. La gente vietnamita, nonostante i tanti anni di comunismo, nonostante l’invito ad un atteggiamento ateo, non ha potuto perdere il fondo naturalmente religioso del proprio pensiero e del proprio animo.

Proprio a nord della cattedrale, si apre la città vecchia di Hanoi, il quartiere chiamato “delle 36 strade”, in effetti nient’altro che un grande mercato nel quale convivono le più antiche tradizioni e le novità tecnologiche più spinte, in un miscuglio che conserva un suo indubbio fascino. Così le donne che vendono derrate alimentari – trasportate sui bilancieri più straordinariamente equilibrati del mondo, in un incredibile avanzamento che fa ondeggiare i pesi, permettendo un trasporto meno faticoso della merce – si alternano ai negozietti di computer e alle boutique di profumi all’ultimo grido. Una volta, come indica la toponomastica, le singole strade erano monopolio di questa o quella categoria merceologica, cosa che oggi ormai è un ricordo. Si scorgono tuttavia grumi di venditori di bambù, di abbigliamento, di ricambi per moto. Ogni commerciante cerca di attirare l’attenzione degli acquirenti potenziali, stranieri ma non solo, grazie all’esposizione il più possibile colorata della merce, con pigmenti naturali ma anche col supporto di schermi, iscrizioni, prodotti che di naturale hanno poco o nulla. Ne viene fuori un impressionante mix di colorazioni della realtà, che il grigiore del cielo non riesce certo a cancellare.

Il gioiello architettonico di Hanoi è però indiscutibilmente un tempio dal nome più che originale: il Tempio della letteratura. La sua storia lo spaccato della vicenda umana, politica e spirituale dell’intero Vietnam: eretto nel 1070 in onore di Confucio dal re Ly Thanh Tong, e poi modificato dai suoi successori. Fu “collego dei figli della nazione” e “casa dell’istruzione, fino a diventare “tempio della letteratura”. Ho appena finito di pranzare nella sala di un ristorantino “sospesa” sul luogo sacro: un festival di sapori forti, di verdure riunite in bouquet d’un verde ammaliante, di fondute di carne frutta spezie che non appesantiscono, ma al contrario esaltano la vitalità, col contributo finale del caffè alla vietnamita, denso di umori e gonfio di caffeina, una delizia. Con queste disposizioni favorevoli, la visita al Tempio dell’arte del leggere non può che essere “confucianamente” straordinaria. A cominciare dalla visione delle quattro vasche ingentilite dai fiori di loto, che accolgono il pellegrino-visitatore-turista invitandolo alla meditazione, all’armonia, alla pace dell’anima. Una vasca più grande, poi, “protetta” dalle insegne del Vietnam e della municipalità di Hanoi invitano a comunicare i propri sentimenti spirituali, culturali e letterari ad una lunga serie di steli appoggiate su 82 sculture di tartarughe che hanno un significato profondo: la natura perenne del sapere. Cerco di catturare il più vero senso di tali sculture scattando foto che però restano grigie, scure, senza vita, finché una bambinetta non si mette a cavalcioni della testa di pietra di uno di quelle tartarughe. E allora il suo sguardo furbo e la giacca a vento verde pisello e giallo canarino trasmettono la bellezza della bellezza, l’armonia della lettura e della vita. Segue la perla del tempio: il Van Mieu. Il legno delle quaranta colonne istoriate la fa da padrone sulla scena: rosso e di preferenza laccato, ma anche scuro e venato di naturalità e verde dei bonsai che punteggiano ogni luogo, creando mini- universi di stucchevole bellezza e di perfetto equilibrio della massa dei colori, delle forme, della sostanza. E ci sono pure i tetti a sfidare la verticalità e l’orizzontalità dell’equilibrio confuciano. Le ardite pendenze dei tetti, ingentiliti e resi sfrontati di coraggio estetico dalle decorazioni – sostanzialmente dei dragoni sinuosi e fiammeggianti che interrompono la regolarità delle linee dei tetti – trasmettono al filosofo deambulante il senso della necessità della mediazione tra Cielo e Terra. Sono i colori delle tegole – rossi gialli verdi, come sbagliare qui in Vietnam? – che annunciano l’assoluta distanza tra umano e divino, ma anche la imperativa necessità di una mediazione. Cos’era l’imperatore se non un mediatore? Troppo sbilanciato verso Terra, però. IL Cristo era atteso anche in queste terre indocinesi.

La visita ad Hanoi non può non trovare il suo termine e il suo completamento in quello che è il luogo massimo della “fede comunista alla vietnamita”, che non è certo marxismo-leninismo all’europea, né socialismo reale alla sovietica, nemmeno il collettivismo contadino alla cinese. È solo “comunismo vietnamita”, quello che ha il suo indiscusso iniziatore e leader in Ho Chi Minh, il “grande traghettatore”, lo “zio” di ogni vietnamita. In fondo anche i cattolici riconoscono la sua importanza nel processo di liberazione del Paese dai vari colonialismi, anche se certamente non sono poche le sue colpe storiche, le sue dimenticanze, i suoi vari momenti di debolezza e meschinità. Così è della storia. Ho Chi Minh è imbalsamato, reso alla sua gente nelle forme di un corpo preservato dalla distruzione dall’opera di sapienti esperti di chimica che ogni anno, per un paio di mesi, rifanno il maquillage alla salma. Il suo mausoleo, costruito con marmo di Danang, in puro stile moscovita-comunista sta al centro di un’ampia spianata in cui si svolgono le grandi manifestazioni del regime. Sta, annunciata da sette rosse bandiere comuniste, e accompagnato poi da altrettante bandiere vietnamite. Al centro una falce e martello, prima, e poi una stella, simboli gialli su sfondo rosso acceso. I soldati di guardia al mausoleo sembrano particolarmente impettiti e incorruttibili; ma, non appena capiscono di essere al centro del mirino dell’obiettivo della macchina fotografica, ecco che s’aprono in un sorriso che fa piacere a vedersi. Ancor più quando nell’inquadratura entrano due donne, protette dal classico copricapo a cono rovesciato dei vietnamiti, che curano dei grandi vasi di fiori gialli, più gialli delle stelle e delle falci e martello. E non può non far piacere che la vena iconoclasta abbia risparmiato proprio sul retro del mausoleo e di fronte all’immenso museo di Ho Chi Minh, il più piccolo tempio buddhista che esita in Vietnam, un piccolo edificio ligneo di culto buddhista sostenuto da una sola colonna, che una volta era di legno ed ora anche di cemento. La vicenda di Davide e Golia si ripete per l’ennesima volta, anche qui in Indocina.


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