Ancora un estratto dal mio libro "Sul largo confine. Storie di cristiani nel Caucaso". Un breve itinerario in una delle città più belle e inquietanti dell'intera regione, quella capitale georgiana che cerca disperatamente di diventare un centro di statura internazionale.
Mi concedo una visita a Tbilisi, finora solo “annusata”. Pensavo di farlo in solitudine – si colgono meglio le tensioni urbanistiche e ci si lascia sorprendere dall’inatteso –, mentre mi trovo accompagnato da tre colleghi. Uno di loro è corrispondente per un giornale turco, un secondo ha creato un gruppo di media di finanza, e il terzo ha aperto la prima e-zine georgiana. La sede di quest’ultima agenzia di stampa è situata nella via dove si erge l’orrido palazzo presidenziale. Per accedere alla piccola redazione si sale una scala di legno traballante in un edificio che potrebbe anche essere pittoresco e avere un certo fascino fin de siècle, ma che purtroppo è in stato pietoso: nel centro non sono rari i crolli e gli incendi.
Una trasandatezza, eredità anch’essa comunista, che è normalità; me ne accorgo gettando qualche occhiata furtiva all’interno delle singole abitazioni, che quasi sempre hanno dei fascinosi cortili interni sui quali si aprono ballatoi e terrazze di legno. Tutti, o quasi, in stato pietoso. Tuttavia nei quartieri centrali di Tbilisi la decadenza affascinana, è qualcosa che sa di passato glorioso e di presente turbinoso. Se i soldi arrivassero anche qui, come a Praga nell’inizio degli anni Novanta, la città diventerebbe un favoloso concentrato di intarsi lignei allungati su tre o quattro secoli, in un’alternanza unica di stili e di mode, pur conservando un non so che di caldo, di familiare. Ma, una volta restaurata, la città resterebbe affascinante?
Cerchiamo poi di avvicinarci al castello, dopo aver dato un’occhiata furtiva alle terme sulfuree, in pieno centro (Tbilisi vuol dire “acqua calda”), ma i miei amici riescono a far esplodere il radiatore: tocca proseguire a piedi, il che non è male, perché questa è una città che va percorsa lentamente per apprezzarne appieno potenzialità e memoria. Ogni legno sfilacciato, ogni intonaco cadente, ogni trave che porta incise antiche decorazioni pare voler riservare un angolo di intimità con la storia. A piedi si possono scoprire le sue chiese in stile georgiano, quasi senza soluzione di continuità con l’abitato e coi suoi grovigli di fili elettrici, rampicanti, brandelli di ricoperture lignee… e pensieri. Sì, i pensieri della gente di Tbilisi sono un po’ aggrovigliati. Ci vorrebbe poco a sbrogliarli, a “restaurarli” verrebbe da dire. Non si esce indenni da decenni di dittatura dopo secoli alternati di occupazione, schiavitù e indipendenza. «Bisogna lasciar del tempo ai georgiani – mi dice uno dei tre giornalisti –, perché la sua natura cristiana ed europea possa riemergere e strutturare la società».
Trovata un’auto, saliamo sulle alture: dapprima passiamo ai piedi di una enorme statua metallica – un orrore, che rappresenta Kartlis Deda, la Madre Georgia –, poi saliamo verso la gigantesca antenna di telecomunicazioni dalla quale si gode una fantastica vista sull’intera città. Mi dicono sia alta 400 metri (sto imparando a non fidarmi delle misurazioni dei georgiani). La vista è proprio straordinaria, da un parco che potrebbe essere incantevole se non fosse abbruttito da edifici in abbandono. Una gran quantità di militari in grigioverde deambula senza sapere bene cosa fare. L’esercito è uno dei problemi della Georgia: lo è ancor oggi, in momenti di forte tensione etnica. Menar le mani è più facile quando c’è poco da fare.
Scendendo, ad uno sguardo più attento, noto numerosi cantieri di vaste dimensioni, mentre le deliziose case in legno poco alla volta conoscono le cure del restauro pagato dai privati. Le auto di grossa cilindrata aumentano anche qui, ma (e questo è un segnale ben più sano per l’economia) crescono soprattutto le auto di piccola e media cilindrata. I salari s’alzano in media più dei prezzi, anche se la gente non se ne rende conto; ma sta di fatto che si ha accesso ormai a beni prima proibitivi per i portafogli. E finalmente comincia a svilupparsi quella classe media che rende possibile un certo liberismo economico.
La religiosità trova una valida spalla nella politica che è alla disperata ricerca di valori nazionali che possano coagulare una popolazione sottoposta alla violenta carica consumista. Così, pur professandosi laico, il potere politico non disdegna di sbandierare le forti vicinanze con le cose dello spirito, quelle legate alla nazionalissima Chiesa di Georgia, ortodossa e autocefala.
La società civile cresce, la stampa pure, anche se l’autocensura di sovietica memoria è ancora all’apice della sua fortuna e anzi, se possibile, è aumentata (lo dimostrerà la guerra del 2008). Di piccoli Berlusconi georgiani non si vede traccia, ma la televisione si americanizza. La proverbiale generosità dei locali si coniuga oggi nella crescita di Ong del posto, seppur legate ad Ong straniere. Il sistema sanitario fatica a raggiungere gli standard europei. Persino l’educazione s’è rimessa in moto, soprattutto per l’iniziativa privata, ed ora la nazione può contare su una cinquantina di università di buon livello. Che poi si approfondisca il fossato che separa chi si può pagare gli studi e chi invece non può farlo, «questo è il prezzo da pagare, anche se lo Stato dovrebbe assicurare a tutti i cittadini un’educazione e un’istruzione adeguata», ammette il ministro della Cultura.
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