Continua la "pressione sociale" su tante comunità copte, in Egitto: accade anche in queste settimane che un certo numero di ragazze cristiane vengano invitate dai fidanzati musulmani ad abiurare la loro religione nativa per poter essere da loro sposate. Viaggio in una delle maggiori "fortezze" spirituali del cristianesimo copto-ortodosso, a Wadi Natrun.
Il nutrun era il sale con cui venivano mummificate le salme dei faraoni e dei membri delle loro famiglie. Da nutrun, ecco Wadi Natrun, la valle del sale, cento chilometri a nord-ovest del Cairo, una sorta di oasi oblunga che si estende per una ventina di chilometri a sud dell’autostrada verso Alessandria. D’improvviso, dopo alcuni chilometri di una lingua d’asfalto che sembra costantemente minacciata dall’invasione della sabbia – in queste terre è costante la lotta dell’uomo contro le forze oscure del deserto e della sua invadenza –, ecco una sorta di fortino, protetto da mura alte una decina di metri, intonacate di fresco e dipinte col colore della sabbia, quello che meglio protegge dal calore impietoso di queste parti. Una mimesi che vuol essere antitesi.
Dal profilo della roccaforte spuntano due o tre campanili, sovrastati dalla tipica croce ortodossa. È domenica, e nonostante la giornata di festa qui in Egitto sia il venerdì, la folla è copiosa. La chiesa più antica ospita famiglie venute sul posto per battezzare in un luogo santo i loro piccoli avvolti in graziose vesti bianche. Quattrocento persone saranno presenti, in un misto dolciastro di odori umani e di profumi d’incenso e cera fusa. La gente, come sempre in ambienti ortodossi, va e viene, interessandosi o disinteressandosi alle vicende liturgiche, che durano tre o quattro ore, ovviamente. Come nelle moschee tocca lasciare le scarpe all’esterno della chiesa.
Aspettando abuna Philippos, visito la vera e propria cittadella costituita dal monastero di San Bishoy, uno dei quattro insediamenti copto-ortodossi situati nella vallata. Uno di questi, quello consacrato a san Macario, è chiuso al pubblico, perché il suo attuale vescovo-priore – un uomo in odore di santità che dicono compia un miracolo dietro l’altro – vuole che i suoi monaci vivano appieno la regola del vero monachesimo nato in Egitto con Sant’Antonio il Grande, e codificato dalla regola di San Pacomio. Tra le cui norme c’è quella dell’assoluta separazione dai fedeli, una stretta clausura.
Trent’anni fa questi monasteri attraversarono un momento di forte decadenza; ma poi, non si sa bene per che motivi, forse perché si è imposta nella Chiesa copto-ortodossa una corrente di pensiero centrata sulla convinzione di dover difendere la propria fede eroicamente, promuovendo un certo spirito di persecuzione non sempre corrispondente alla realtà dei fatti.
Nella visita entro nel cantiere della nuova grande chiesa che potrà ospitare quasi un migliaio di persone. Vorrebbero concluderla per Pasqua, auguri!
Nella visita entro nel cantiere della nuova grande chiesa che potrà ospitare quasi un migliaio di persone. Vorrebbero concluderla per Pasqua, auguri!
Papa Shenouda – suprema autorità copto-ortodossa – viene proprio da questo monastero, e vi ritorna appena le sue incombenze glielo permettono. Tra il settembre 1981 e il gennaio 1985, è stato addirittura confinato in questo monastero dal presidente Sadat, per la persecuzione violenta avviata dal regime contro la Chiesa copto-ortodossa, che ha portato in prigione una cinquantina di vescovi e sacerdoti, oltre a centinaia di laici. Il motivo di tale persecuzione era indicato nella costruzione abusiva di nuove chiese, accusa rivelatasi totalmente infondata.
Il governo, tra l’altro, aveva arrestato nello stesso tempo anche una dozzina di imam di Al-Azhar, in modo che non si potesse accusare il potere di avere fatto discriminazioni di sorta. Poi, l’8 ottobre dell’81, Sadat fu assassinato, e il suo successore Mubarak cercò di sistemare la faccenda in qualche anno di lavoro. Per quattro anni il monastero, quindi, rimase isolato dal resto del mondo da una cospicua cintura di sicurezza attuata dall’esercito.
Finalmente arriva abuna (cioè padre) Phlippos, un uomo sulla settantina dal sorriso intelligente ma gioviale, un uomo d’azione che è diventato un uomo di preghiera. La gente lo cerca e gli bacia la mano, ma lui vuole evitare tali manifestazioni di rispetto. Anch’egli, come la maggioranza dei suo confratelli, è entrato in monastero in età adulta, dopo essersi laureato in ingegneria ed avere esercitato la sua professione per cinque anni.
È in questo monastero dal 1972, dopo aver trascorso dodici anni in un altro luogo – che per pudore non vuol dire –; resta misterioso il motivo del cambiamento, ma pare legato al problema della tensione tra governo e chiesa di quegli anni. «In ogni caso – mi spiega con convinzione – sono diventato monaco per amore del Cristo e degli uomini. Ho capito che l’uomo non può vivere senza preghiera, come il corpo non può vivere senza cibo». Ha scritto diversi libri, tra cui uno sul complesso calendario copto e una storia della Sacra famiglia neil suo soggiorno egiziano, basandosi sulle innumerevoli tradizioni – non sempre storicamente plausibili – mantenute vive nella sua chiesa.
Con abuna Philippos cerco di penetrare nella vita dei monaci – in questo monastero sono 150, con decine di giovani che desiderano entrarvi –, tutta centrata sulla preghiera, Talvolta, per feste particolari, si svegliano alle una meno un quarto, rimanendo poi in adorazione fino alle prime luci dell’alba, quando comincia la celebrazione eucaristica… Negli ultimi tempi, però, le visite ai monasteri si sono moltiplicate, e così taluni monaci lamentano la confusione che regnerebbe nel monastero. Ma il nostro caro abuna Philippos non condivide tale opinione: accogliere gli ospiti equivale ad una vera opera di evangelizzazione.
La vita comunitaria è limitata al lavoro comune e alle liturgie; ma non mancano coloro che sono impegnati per una maggior comunione fraterna. C’è comunque, soprattutto nei monaci più avanti negli anni, una certa indipendenza: il nostro abuna, ad esempio, ha raggranellato i fondi necessari per costruire un orfanotrofio.
Faccio poi notare la presenza di alcuni telefonini nelle mani dei monaci: «Sono solo esigenze dell’accoglienza – mi spiega abuna Philippos, che gioca proprio con un mobile –, e sono pochi i monaci che lo possiedono con l’autorizzazione dell’abate. Papa Shenouda non era favorevole alla introduzione di tale meccanismo, ma è stato impossibile resistere, con centinaia di migliaia di visitatori all’anno. Ma la televisione non è entrata, e così Internet. Non ne abbiamo bisogno, la nostra vita è piena, anzi pienissima. Dobbiamo continuare ad offrire a tutta la chiesa la nostra radicalità di vita, dobbiamo mantenere la sacralità del luogo».
La storia di questo monastero data al IV secolo. Il fondatore, San Bishoy, nacque nel 320 e morì nel 304. Da allora qualche monaco è sempre restato nel convento, e ha continuato a curare l’intonaco perfetto dei muri spessi talvolta anche due metri. Ognuno ha compiti ben precisi nel convento: ci sono anche gli artisti, gli studiosi, chi fa la cucina e chi cura l’orto.
Ed è proprio in questa vita che cresce l’amore reciproco tra i monaci, senza badare a chi fa l’eremita e a chi accoglie invece i visitatori, a chi mangia solo e a chi in compagnia. Monaci che sono il nerbo della Chiesa copto-ortodossa, perché solo loro possono diventare vescovi; e perché sono loro che danno l’esempio della preghiera. Sono più di mille in Egitto, i monaci, ed hanno aperto altri monasteri in giro per il mondo, tra cui uno persino a Milano.
La visita si conclude salendo gli erti e sconnessi scalini che conducono alle cappelle di Sant’Antonio e di San Michele, nei due piani superiori della fortezza, protetta da un ponte levatoio e da mura spesse un paio di metri. Nella prima cappella due giovani monaci intonano un bellissimo canto accompagnandosi con triangolo e cembalo, i soli strumenti musicali ammessi nel monastero. È un inno d’accoglienza che si perde nella notte dei tempi, fino ai faraoni. È stato proposto anche per l’accoglienza di Giovanni Paolo II in Egitto. Dice: «Tu sei la pace, dammi la pace». Nella cappella di San Michele – che in tutti i conventi copti-ortodossi si erge sul tetto del monastero, perché l’arcangelo apra le sue ali a protezione dei monaci – preghiamo il Padre per l’unità dei cristiani e per la pace nel mondo.
I saluti: i monaci non vogliono più lasciarmi partire, e guardano fuori dalle mura come se esse portassero fuori dal mondo, e non come se introducessero al mondo. Questa è la loro millenaria forza.
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