A Monaco di Baviera sono continuati i colloqui tra le delegazioni armena e azera per risolvere il rompicapo geopolitico del Nagorno-Karabakh, "enclave" armena in territorio azero. Visita alla città di Shushi (2007), che riassume in sé il dramma di una regione da secoli vittima di conflitti e vendette.
Le distruzioni della guerra e della violenza, persino del genocidio, non mi sono estranee, da tempo ormai: ne ho viste e conosciute abbastanza per riuscire a coglierne il lato diabolico, l’attrazione delle rovine che non permettono di capire quale stupidità sia l’eliminazione di anni, decenni, secoli di storia, di lavoro, di ingegno. Pochi istanti di dia-ballo, di separazione, e il sun-ballo, il simbolo, sparisce, lasciando al suo posto il nulla della morte senza speranza, il suo non-senso. Detto questo, quel che vedo a Shushi supera ogni mia immaginazione. E mi ferisce.
Nella visita al Nagorno-Karabakh – enclave armena in territorio azero – avevo chiesto ai miei accompagnatori di poter fotografare almeno una moschea distrutta; così, giusto per far la mia parte di giornalista imparziale, la solita illusoria pretesa di obiettività. A Stepanakert, la capitale di questo Stato che non è ancora tale, ho solo intravisto qualche casa distrutta in lontananza, così come nel lungo tragitto tutto curve tra la frontiera armena e quella del Nagorno-Karabakh – il corridoio detto di Laçin, ribattezzata dagli armeni Kashatrak –, ma nulla di straordinario, più o meno quel che avevo visto a Srebreniça, con le case dei musulmani bosniaci disossate dai cristiano-ortodossi serbi.
Shushi si trova a dieci chilometri da Stepanakert, sulla montagna. Vi si arriva d’improvviso, non avendo scorto dal basso nulla o quasi della città, solo qualche scorcio dei muri della prigione e un monumento insolito: un carro armato, piccolo, quasi minuscolo, ma che nella posizione in cui è stato issato – sopra una curva della statale – pare un irraggiungibile panzer. Sulle fiancate porta dipinte quattro croci… È il primo carro entrato a Shushi per sancire la vittoria degli armeni sugli azeri. Un simbolo.
Le mie guide mi accompagnano dapprima alla Cittadella del paesello (così di primo acchito mi sembra che sia), una modesta cinta muraria che però viene magnificata nelle sue qualità difensive e offensive. Di interessante trovo solamente, sotto un paio di volte a tutto tondo, degli affreschi slabbrati e ammuffiti che decantano alcuni episodi epici della civiltà nativa del Nagorno-Karabakh. Poi saliamo di qualche decina di metri – in Mercedes, svp, qui non si può percorrere a piedi neanche una dozzina di metri, sono l’ospite d’onore – e inizia una progressiva scoperta che mi lascia senza fiato. Scopro una città, una grande città, in rovina. Poco alla volta me ne rendo conto: prima un vecchio palazzotto che le mie guide si affrettano a dire appartenere alla comunità armena, saccheggiato nella guerra del 1914, o per meglio dire, nel genocidio di quegli anni. Poi ecco un minareto tozzo, ancora rivestito con le sue mattonelle originarie, anche se un po’ sbeccate. Sopra la sala di preghiera qualche cupoletta tiene ancora, mentre altre sono sprofondate e tutto appare bruciato e saccheggiato.
Questa moschea azera, invece, è stata distrutta nella recente guerra del 1992-1994, così come le altre due grandi moschee che scopro più in basso, quelle dell’Iran e quella dell’Arabia Saudita. Due moschee che dapprima non riesco a vedere, perché mascherate da un enorme palazzone residenziale, totalmente rovinato e bruciato, almeno all’apparenza. Mi avvio sull’ampio viale alberato che porta alla moschea dell’Iran. Tutto è distrutto: una scuola, un teatro, un ufficio comunale, abitazioni, bagni pubblici, sale sportive, una scuola di ballo.
Due anziane signore malmesse in salute e con gli occhi bastonati, strette nei loro abitucci a fiori scoloriti e lisi, mi osservano scattare foto. Le interpello. Sono armene, rifugiate qua a Shushi da Baku, dove vivevano con le rispettive famiglie, fino al 1992, quando fuggirono con alcuni parenti. Altri erano rimasti laggiù, nei cimiteri abbandonati dagli armeni, saccheggiati e devastati dagli azeri. «Dove vivete?», chiedo loro. Mi indicano uno dei palazzoni semidistrutti. Guardo bene: in effetti qualche appartamento sembra essere stato riattivato in un modo o nell’altro, con cartoni, lamiere arrugginite e legni di recupero, in modo assolutamente provvisorio, ma da ben 16 anni! «E come si vive qui a Shushi?». Allargano le braccia. «Meglio a Baku o a Shushi?». «Meglio lì, economicamente, meglio qui per la sicurezza». «Volete tornare a Baku?». Sbarrano gli occhi: «Mai». Poi una delle due mi chiede qualche spicciolo.
Avanziamo. Spostiamo una rete metallica arrugginita che funge da cancellata della moschea azera: ed eccoci nel recinto del luogo di culto, o per meglio dire di quel che resta di esso. Salgo i gradini semicircolari ed entro nella grande sala di preghiera, che conserva una sua dignità e bellezza, nonostante ogni suppellettile, ogni infisso e ogni decorazione sia stato sistematicamente divelto e distrutto, strappato, sminuzzato. O venduto. Seguo poi la mia guida e mi avventuro su per le buie scale a chiocciola del minareto orientale. Le uniche fonti di luce sono le feritoie provocate dai colpi di mortaio che sedici anni fa erano stati sparati verso la moschea. Forse proprio da quel carro armato che ora accoglie i visitatori all’entrata della città…
A fatica raggiungiamo la sommità del minareto, spogliato dai parapetti lignei e pure di parte del tettuccio metallico. Mi chiedo se reggerà anche quest’oggi: sto attento a dove metto i piedi. Finché alzo lo sguardo. No, non ci credo. Dapprima mi rendo conto di quanto estesa sia la città, e me ne rallegro. Ma pochi istanti più tardi mi rendo conto che la maggior parte di tale distesa abitativa è costituita da rovine. Solo un occhio addestrato saprebbero distinguere quelle azere da quelle armene, quelle della guerra del 1914 e del susseguente genocidio da quelle del tentativo comunista di ridare una facciata decente alla città facendo tabula rasa di tutte le macerie a colpi di bulldozer e di pale meccaniche, nel 1960. E da quelle dell’ultima guerra del 1993. Desolazione.
Esco tra le macerie, e poco alla volta riesco a riconoscerne i diversi tipi. In un cortile giace ancora un piccolo blindato, preda ormai della vegetazione, divenuto com’è ricovero di uccellini e rettili. Insegne divelte, mobili fracassati, gradini scheggiati, la cornetta di quello che era un telefono, piatti frantumati, una radio sforacchiata da colpi d’arma da fuoco…
Esco tra le macerie, e poco alla volta riesco a riconoscerne i diversi tipi. In un cortile giace ancora un piccolo blindato, preda ormai della vegetazione, divenuto com’è ricovero di uccellini e rettili. Insegne divelte, mobili fracassati, gradini scheggiati, la cornetta di quello che era un telefono, piatti frantumati, una radio sforacchiata da colpi d’arma da fuoco…
Un po’ depresso, mi avvicino lentamente a quella che sembra la nuova chiesa ortodossa. C’è movimento tutt’attorno. Da lontano colgo la presenza come d’un nugolo di mosche nere, che ben presto si rivelano Rav e Mercedes e Bmw tutte nere, nel bisogno delle zone di povertà e guerra di apparire, di pavoneggiarsi, come da noi fanno i bulli di paese. Qui, invece, lo fanno tutti quelli che possono. Si celebra un matrimonio, la sposa in bianco, le donne curatissime e colorate e profumate, spesso in modo esagerato, sfacciato. E tradizione qui vuole che, dopo il matrimonio, ci si faccia fotografare coi convitati un po’ ovunque nella città.
Tutti in macchina, quindi, a strombazzare e a fare bravate, a fermarsi d’improvviso in mezzo alla strada per farsi fotografare ovunque, quindi anche in mezzo alle rovine. Forse è un bene, il simbolo che ovunque e comunque la vita continua e si è capaci di dimenticare anche le peggiori nefandezze subite o inferte. Ma azeri e armeni non potranno più vivere insieme, come mi spiega anche il vescovo armeno-apostolico, per almeno quarant’anni almeno.
Nel 1914 Shushi contava 90 mila abitanti (85 mila armeni, 3 mila stranieri e 2 mila musulmani) ed era la terza città del Caucaso, dopo Tbilisi e Baku. Contava teatri, borse, terme, grandi hotel e raffinati ristoranti, la fama di una città chic. Nel 1993 era ridotta a 18 mila abitanti: erano stati circa 8 mila gli azeri uccisi o fuggiti e 2 mila i profughi armeni d’Azerbaijan giunti quassù per sostituirli. Oggi la città ha quindi 12 mila abitanti e non è più la capitale del Nagorno-Karabakh. Ma ha una distesa interminabile di rovine. È un mausoleo a cielo aperto alla stupidità del conflitto etnico.
1 commento:
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