Oceani bianchi e dorati. Viaggio tranquillo, via Zurigo: hostess gentili, senza ostentazione, precisione cronometrica della Swissair. Oceani dorati dello sfavillio delle onde e bianchi dei batuffoli delle nuvole. Ore e ore, come per ricordare che in America ci si va per volare alto, come le Torri gemelle, per scivolare sulle onde dello Spirito. Poi due ore e passa sulle autostrade che attraversano New York. Dal Whitestone Bridge, Manhattan sfida la geometria dell’orizzonte con le sue guglie, come dita d’uomo protese al cielo, la preghiera delle cattedrali laiche. Sfrecciano i pendolari della periferia che ritornano a casa; una lunga teoria di auto col solo conducente.
L’indomani, dopo un giro in auto per Queens e Brooklyn, faccio quattro passi alla base dell’immenso ponte di Verrazzano, un capolavoro di ingegneria e una metafora dell’America di oggi, un grande ponte verso il resto del mondo. Poi, attraversato l’Hudson per il Brooklyn Bridge, vecchio ma sempre affascinante, non solo per “la gomma del ponte”, parcheggio ai piedi del World Trade Center, celebre per la coppia di grattacieli più alti del mondo, superati solo dai gemelli eretti a Kuala Lumpur.
450 ditte per 50 mila impiegati affollano le due torri, architettonicamente discusse e discutibili, costruite tra il 1966 e il 1977. Avrei voglia di salire a piedi fino in cima, memore della mia passione alpinistica, ma mi scoraggiano tutti, a cominciare dagli inservienti: le scale sono faticose, certo, ma anche oscure e malsicure. Così mi rimetto nella fila per gli ascensori più veloci del mondo. Dal terrazzo al 107° piano, ammiro il mare di grattacieli, la statua della libertà, il formicolare di gente alla base dell’edificio. Impressionante. Veramente, come dicono un po’ presuntuosamente le pubblicità, siamo sul top of the world, sulla cima del mondo. L’uomo ha saputo arrivare “solo” a trecento e passa metri con le sue torri di babele. Dio è altro. Per la mente mi passa il fantasma assurdo di un aereo impazzito che si schianti sulle torri…
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