Solo un Paese paradossale come l'India poteva cercare di dare una identità digitale a 1 miliardo e 200 milioni di abitanti. Riuscirà nell'impresa, "schedando" anche chi vive sui ghat, i gradoni che scendono verso il Gange, "la madre di tutti i fiumi", a Varanasi-Benares? Visita, gennaio 2003.
Buio pesto, solo qualche fioca luce di tanto in tanto rischiara l’atmosfera lattiginosa, interrotta da rumori a me sconosciuti che qua e là si solidificano:
una scimmia che avanza a zigzag,
un cane piangente sulla sua perduta serenità,
un vecchio in tenuta assolutamente adamitica che abbozza qualche movimento che vorrebbe essere ginnastica,
una donna che spazza qualche gradino, mi accorgerò che non ce n’è uno uguale all’altro nei quattro chilometri dei ghat, dallo sterco lasciato dalle mucche sacre e dai fiori votivi sparsi dai pellegrini,
un gruppo di uomini accovacciati per terra che fanno scaldare la cuccuma del tè pretendendo nel contempo di riuscire a scacciare quell’umidità che penetra fino al midollo delle ossa tendendo le mani verso un mucchietto di bragia,
il regolare sbattere di tessuti sulle pietre ad opera dei muscolosi lavandai,
il volteggiare di qualche uccello indefinito ma minaccioso,
il rumore attutito di un uomo che accatasta la legna per i burning ghat della giornata, cioè le pire che di giorno cremano i corpi dei defunti,
un pellegrino che si materializza dal nulla ad appena un paio di metri di distanza, ma è quasi totalmente immateriale,
persino il sommesso vociare dell’amore casto…
E così inizio, grazie alla notte che se ne va, a capire la sacralità di queste rive, da sempre luogo di culto e di meditazione, di devozione e di ascesi: le stesse medesime gesta da migliaia d’anni, di che rabbrividire, per noi occidentali sempre più avvezzi al distruttivo usa e getta. Ma sono anche luoghi del contrario di tali pratiche: luoghi di materialismo e di rumoreggiamento, di spensieratezza e di godimento. L’induismo, anche in questo viaggio, non potrà che sconcertarmi e affascinarmi. Ne sono certo.
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