giovedì 24 dicembre 2009

Chong Kneas, la città galleggiante


Continua il viaggio in Indocina. Prima di abbordare Angkor, una visita inattesa ad una città sulle acque. Dove c’è una chiesa cattolica…

Non volevo andarci, avrei desiderato immergermi subito nell’antico mondo khmer, il mondo della pietra khmer, cominciando il pellegrinaggio ai grandi templi di Angkor. Ma gli amici di Siem Reap (che vuol dire “i thailandesi sconfitti”) hanno insistito perché accettassi di visitare la città delle case galleggianti, Chong Kneas, sulle rive del grande lago Tonlé Sap. Non molto convinto, ho accettato, per amicizia. E, come sempre, facendo un favore alla fine ci ho guadagnato, la piccola storia (piccola?) si ripete. Sì, il luogo ormai attira qualche migliaio di viaggiatori all’anno, appena sufficienti per portare qualche dollaro nel paesotto flottante. Vi si giunge in barca, ovviamente, attraverso un canale poco profondo, percorso solo dalle tipiche imbarcazioni della regione, che hanno lo scafo com’è logico piatto, e fornite di strani timoni che servono anche da scandaglio per verificare la profondità delle acque. D’estate, in effetti, quando le acque che arrivano dal Mekong diminuiscono, il paese deve cambiare posto, e allontanarsi verso il lago, per evitare di… rimanere in secca! L’acqua pare fango, tant’è scura, marrone, senza la benché minima trasparenza. Sembra il Tevere di vent’anni fa.

Il porto di partenza conta soprattutto abitazioni su palafitte, tipiche dell’architettura rurale cambogiana, ma a mano a mano che si avanza queste tendono ad essere rimpiazzate dalle case galleggianti. Di cosa vive questa gente? Di pesca, ovviamente, di un po’ d’agricoltura che si riesce a portare avanti sugli isolotti quando non vengono sommersi dalle acque, e di quel po’ di turismo che arriva quaggiù.

Giungiamo alla foce del canale, dove le case galleggianti si allineano con un certo ordine le une alle altre. Usciamo nel lago aperto, per guardare il paesotto dal largo. S’avvicina una barchetta con a bordo una donna e due frugoletti dagli occhi a mandorla. Evidentemente i suoi figli, anche se la donna pare sfiancata dalla vecchiaia precoce. Per un dollaro l’equipaggio della piroga, o qualcosa di simile, vende lattine di birra e di bibite analcoliche. La bimba salta sulla nostra barca – «all’arrembaggio!», sembra gridare con la sua bocca sdentata – e mi offre la sua mercanzia, mentre la madre si profonde in saluti ed elogi. Compro una Coca cola, e la bimba se ne va trionfante, leggera come una piuma, adulta come una donna cambogiana.

La vegetazione è satura di verde, grassa d’acqua, fitta di opulenza clorofilliana. Le case galleggianti godono della cromatica bellezza dello scenario. M’avvicino a una di esse, incuriosito per il fatto che sbirciando all’interno vedo solo gente stesa sulle amache a riposare, in una confusione apocalittica. Il fatto è che nelle barche c’è un solo locale. La cucina? Un fornelletto in mezzo alla barca. La camera da letto? Le amache, certamente. Il bagno? Lo specchio d’acqua, è ovvio. Mi salgono alla mente termini quali promiscuità, miseria, disorganizzazione, irresponsabilità. Ma allontano queste tentazioni da intellettuale occidentale. Me ne vergogno un po’, allorché l’uomo dell’amaca – anch’egli dall’età indefinibile: 30? 40? 50? – mi spiega che sta riposando perché s’è alzato alle quattro del mattino per andare a pescare al lago, e che quindi quella sosta se l’era meritata. A quanto riusciamo a capire deve avere quattro figli da tirare avanti da solo, perché la moglie è morta, «se n’è andata in fondo al lago – ci dice –. Ma un’altra donna mi è stata promessa dal sindaco», o qualcosa del genere. La vita è dura a Chong Kneas, ci confessa, anche se il turismo porta qualche soldo alla comunità: «Ma i ricchi sono sempre più ricchi, anche qui, e noi poveri dobbiamo sempre dar fondo a tutte le nostre energie».

Improvviso trambusto, mentre l’uomo si sta dando da fare – ci ho messo un po’ di tempo a capirlo, stupido che non sono – per cuocermi qualche pescetto che, ovviamente, è stato pescato, ha vissuto ed è morto in quest’acqua marrone e densa di terra e fango. Mi toccherà mangiarli? Arrivano dunque i quattro marmocchi, anzi no sono sette o otto chi lo sa, guidando una sottile imbarcazione, quasi una canoa, che fa acqua da tutte le parti, se metà dell’equipaggio è impegnata, come fosse un gioco divertente, a svuotare lo scafo a ritmo serrato con secchielli multicolori. La scuola – anch’essa galleggiante, l’avevo vista, tutta fiera, parata a festa d’azzurro e di bianco – per oggi è finita, tutti a casa! Ed è così in un’indescrivibile baraonda che mangiamo pescetti arrosto che non sono male, in fondo, forse perché conditi con una salsa oleosa che fa saltar le budella e mangiati con un’erba aromatica che sa di prezzemolo, di salvia e di noce moscata tutt’assieme.

Non è che la conversazione sia particolarmente ricca, ma il pover’uomo ce la mette tutta per tirar fuori dalla sua cultura dei peraltro interessanti dettagli sulla presenza dei coccodrilli (che sono sempre più rari, ma sono diventati più cattivi), dei pesci-gatto (che crescono in poche settimane come dei gatti, appunto), degli artigiani che riparano le barche (non si trova più il legno stagionato dai tempi della guerra), della fatica di cambiare posto tre o quattro volte all’anno (per via delle piene e delle magre), delle gru e delle cicogne (che nidificano persino sulle barche), della grande solidarietà che c’è tra i pescatori («quando mia moglie è morta si sono presi i bambini per qualche mese»)…

La più originale affermazione di Phomg – questa mi sembra la trascrizione del suo nome, ma non ci giurerei – è però di carattere religioso. Avendo infatti scorto nel suo classico altarino buddhista, che occupa un angolo della casa-barca, una raffigurazione più classica che ci sia del Sacro cuore di Gesù, gliene chiedo il motivo. «Me l’hanno dato i padri cattolici che vengono di fronte». E mi indica una casa galleggiante più decorosa delle altre, azzurra e bianca come la scuola elementare, sormontata da un grande crocifisso giallo.

Eh sì, i gesuiti sono arrivati anche quaggiù. Un impegno certamente gravoso. Non abitano qui, questo no, perché vengo a sapere che la loro casa è a Battambang, ad una sessantina di chilometri da qui, ma ogni domenica vengono a celebrare la messa. Anche qui, in questo sperduto estuario d’Indocina. Maestri d’inculturazione, certamente lo sono, ancora oggi: nella cappella una statua della Madonna da lontano pare un Buddha nella posizione del loto, e gli incensi e i fiori sono gli stessi che si trovano nei templi buddhisti. Ma c’è ordine, quello che invece manca quasi sempre nelle grandi sale del culto del Boddhisatwa. Sincretismo? LA questione è e sarà sempre aperta. E le risposte saranno sempre uguali: sì, no, forse, dipende. Ma una frase dettami da Phomg congedandosi da noi non mi lascia più tranquillo: «Noi abbiamo i riti della nostra tradizione, ma Gesù mi è vicino, è nella mia barca». Da commuoversi, Teilhard sobbalzerebbe nella tomba, così come Matteo Ricci, Mircea Eliade,. Raimon Panikkar, Giovanni Paolo II, Chiara Lubich…

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