lunedì 7 dicembre 2009

Romania tra due presidenti


Il Paese s'è svegliato stamani con due presidenti. Un PIL passato in due anni da +8 a -8. Visita al cuore religioso della Nazione: Curtea de Arges, Bistrita e Horezu (2006).

Ci volevano un paio di monasteri alle pendici dei Carpazi per prepararsi alla gemma dell’ortodossia rumena nella Valacchia, la regione tra Bucarest e Tirgu Jiu. Una regione che pare abitata dalla luce sotto le cose.

Curtea de Argeş ha il fascino della religiosità popolare, quella che nelle feste comandate popola ogni anfratto disponibile nel recinto del monastero. Bacia icone e mani vescovili, si traccia il segno della croce una, dieci, cento volte, chinando la testa e poi il busto e s’inginocchia e si prosterna. La fede degli ortodossi a Curtea de Argeş passa per il corpo e per tutte le sue possibili espressioni di devozione.

Bistrita ha invece il fascino della femminilità fasciata di nero delle ottanta monache che la abitano e la custodiscono con grazia e inflessibilità. Infilato nel fondo di una valle chiusa, tra cementifici e cave a cielo aperto che deturpano il paesaggio, sembra resistere alla bruttura della follia umana – le orride industrie sono un regalo di Ceaucescu, che così combatteva a modo suo, a colpi di bruttura, l’oppio dei popoli – con una nota di discreta armonia bianca e rossa. L’iconostasi e le icone che sorreggono (proprio così) la chiesa e la sua fede non sono tra le più antiche, ma colpiscono il visitatore per la loro espressività maestosa. Fuori stazionano mendicanti e bambini di strada, la naturale propaggine dei monasteri di queste parti che, accanto alla preghiera, non hanno mai dimenticato la carità.

Poi Horezu. Non solo perché l’Unesco ha iscritto il monastero nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità. Non solo perché, dopo la miseria e la bruttura di contrade dopo contrade, lo spirito ha bisogno di ritemprarsi. Nemmeno perché dopo quattro ore di pellegrinaggio in pullman si ha diritto a una ricompensa. Horezu merita una visita perché qui lo spirito cerca di sopravvivere tra il tradimento occidentale del cristianesimo relativizzato e quello orientale dell’Islam assolutizzato. Intendiamoci, entrambi questi tradimenti sono lontanissimi dallo spirito delle quarantanove monache che lo mantengono in vita, forse nemmeno consapevoli di tanta missione, appena consapevoli e fiere di appartenere alla loro Chiesa, Chiesa di Romania, Chiesa nazionale, Chiesa che si direbbe angusta.

Ma la grandezza del cristianesimo sta anche nel particolare che diventa universale. Horezu è il centro del mondo, Horezu è la barriera all’abominio, Horezu è la perla del vangelo. Per la quale queste monache vestite di nero hanno lasciato tutto, o talvolta niente. Sono vecchie e giovani, serie e sorridenti, e si divertono a giocare a nascondino con la mia macchina fotografica, celandosi alla mia vista dietro la teoria di colonne che cingono su due livelli la chiesa centrale, culminando in quel capolavoro che è il portico di Dionisie. Affreschi e icone sembrano invadere ogni spazio interno ed esterno disponibile, conferendo allo spazio la dimensione dell’arte e della luce. Quella che rende la vita più intima e meritevole di essere vissuta.

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