giovedì 10 dicembre 2009

La città del Nobel a Obama


Il Premio Nobel per la pace viene oggi consegnato al presidente Usa. Un riconoscimento che viene dato ad un leader che esprime un forte sostegno ad ogni dialogo interculturale e interreligioso, ma che ha appena deciso di accrescere l'impegno bellico in Afghanistan... Visita allla "città della pace", ad Oslo (2006).

Oslo non è una grande metropoli e non è una città d’arte. Non è la sede di grandi industrie e non conta una squadra di calcio vincente. Eppure, appena entrato nella capitale norvegese, mi accorgo che la città ha un fascino particolare. Capirne le ragioni mi richiede però un certo tempo, quello necessario per mettermi all’ascolto del suo respiro. Sì, Oslo respira; non solo per il vento che l’accarezza senza sosta, o quasi, portando con sé il freddo del Mare del Nord, ma pure il tepore della Corrente del Golfo che rende i suoi inverni meno rigidi di quanto si possa immaginare. E non respira solo per le foreste di pini e abeti slanciati e fitti che la circondano ovunque il mare non riesce ad arrivare. Nemmeno per l’immenso tasso di sportività che fa di Oslo la città al mondo con più praticanti di attività ginniche, o in ogni caso ludiche. Oslo non respira nemmeno per il suo porto commerciale e turistico che la apre al mondo senza possibilità di ritornare ai secoli della chiusura identitaria. Oslo respira perché i suoi polmoni sono di acqua e di legno, così come lo è la sua cultura.

L’acqua dei vichinghi, l’acqua solcata dalle sue imbarcazioni slanciate e robuste, flessibili e flessuose, e per giunta di irraggiungibile eleganza. Tanti hanno voluto dimostrare l’intraprendenza e il coraggio degli antenati vichinghi, certo dimenticando i lati meno nobili e più violenti, forse addirittura brutali, di una popolazione che ha scorrazzato per mari (soprattutto) e per monti (quando necessario), lasciando una scia di incendi ovunque e immancabili distruzioni alle sue spalle. I vichinghi avevano quella qualità poi ereditata dai norvegesi tutti che si chiama costanza. Temprati dal rigore degli inverni e dall’asprezza delle loro montagne, che li spinsero a trovare sbocchi nelle acque del mare e dei fiordi, i vichinghi seppero intuire che i confini del mondo non si accampavano sul profilo delle montagne che sovrastavano le loro case o sull’orizzonte del mare turbolento che pareva scoraggiare ogni iniziativa. I confini del mondo si trovavano là dove il popolo voleva piazzarli. E così occuparono, o piuttosto “visitarono”, luoghi lontanissimi eppure sempre più vicini. Il museo dedicato alle loro navi, il Vikingskipshuset situato nell’arioso quartiere di Bygdoy, ha pochissimi pezzi pregiati, ma conquista per la sua giustezza, per la qualità di quanto esposto, o semplicemente perché fa sognare. E tanto. Ammirando, ad esempio, la straordinaria nave di Gokstad – 24 metri e 16 file di fasciame, costruita nel IX secolo –, viene da dirsi che non vale la pena di rinchiudersi nei propri confini, nazionali, personali o corporativi che siano, perché col viaggio si conquista, ma anche si impara molto. E così stupisce l’ostinazione dei norvegesi a non voler entrare in Europa, anche se sarebbero stati accolti a braccia aperte.

L’acqua e il legno. Poco distante dal museo delle navi vichinghe, ecco sorgere uno dei musei più originali mai visti al mondo – Stoccolma ha qualcosa di simile, lo Skansen –. Qui infatti, al Norskfolkmuseum, sono state trasferite – smontate e rimontate senza alcuna deroga ad una totale salvaguardia dei manufatti – centocinquanta costruzioni di legno, espressione delle diverse culture locali che da sempre hanno contraddistinto e contraddistinguono tuttora il convivere sociale norvegese. Ci sono abitazioni e chiese, scuole e porcilaie, fienili e rifugi, in una visione al contempo sincronica e diacronica della storia, che permette di percorrere migliaia di miglia e decine di secoli in qualche centinaio di metri e in un’ora scarsa di tempo. C’è Setesdaltunet e c’è Hallingdalstunet… Al museo si rspira il profumo dei legni più antichi e stagionati e pregiati, si aprono le porte del proprio cuore e della propria casa alle diverse culture che popolano la Norvegia, o il territorio che oggi si suole chiamare Norvegia, rispettando la diversità e accettando quello che unifica. Anche questo è il respiro di Oslo, un respiro che risale fino all’epoca del pacifico popolo stanziale dei sami, la gente del Nord, che viveva di pastorizia e pesca, la cui lingua ancor oggi viene parlata da ventimila persone, regolate da un vero parlamento con sede a Karasjok, nella Norvegia settentrionale.

Per tutte queste ragioni Oslo è innanzitutto la capitale della cultura della pace. Lo si capisce non solo per i natali dato ad Alfred Nobel, inventore della dinamite convertitosi al pacifismo convinto, ma anche per la mole dell’Akershusslott, il castello slanciato che, dal 1299, anno d’inizio della sua costruzione da parte del re Håkon V, ha difeso la città di Oslo dai tanti tentativi di attacco dal mare. Ma finalmente, dinanzi al porto e al Rådhuset – l’edificio più celebre di Oslo, costruzione modernista di mattoni scuri –, ecco in un discreto edificio del XIX secolo, la vecchia stazione Vestbanen, il Nobel Prize Center, in cui si vuole non solo presentare la vita e l’opera dei diversi vincitori del Premio Nobel per la pace – ogni anno attribuito in novembre, dopo un’attentissima selezione, nella sala Rådhus del Rådhuset –, ma soprattutto il senso di una istituzione unica al mondo, al confine tra impegno per la pace e cultura della pace. I visitatori norvegesi ne sono il più chiaro esempio.

Nessun commento: