Visita alla cittadella underground del "triangolo di ferro", alle porte di Ho Chi Minh City. Per capire la forza della resistenza vietnamita e convincersi ancor più dell'inutilità della guerra.
È in qualche modo un pellegrinaggio, quello che mi trovo a vivere in questa piccola località a nord-ovest di Ho Chi Minh City, al vertice superiore del famoso “triangolo di ferro” della resistenza vietminh contro i francesi e poi vietcong contro gli statunitensi e i suoi alleati. Nella zona si era concentrata la più forte opposizione all’invasione, e la vicinanza della capitale incuteva non pochi timori alle armate delle Us Force, che temevano quel polmone di opposizione – il “triangolo di ferro” – come una grave minaccia per il regime al potere a Saigon.
Per questo motivo diedero alle loro forze aeree il comando di bombardare tutto con la massima libertà e intensità: free fire zone. Anzi, quando nei loro giri restavano con del potenziale bellico inutilizzato, i piloti erano invitati a scaricare tutto in quel triangolo imprendibile. Con tutto quello che ne sarebbe potuto conseguire in vittime e danni civili. Tentarono anche l’assalto via terra, più volte, ma subirono solo cocenti sconfitte. Perché i vietcong apparivano all’improvviso, tendevano le loro imboscate e poi svanivano nel nulla, si volatilizzavano. Il fatto è che nella foresta i resistenti avevano creato una vera e propria cittadella sotterranea, ricca di entrate nascoste e di trappole per gli assalitori.
Centinaia e centinaia di soldati statunitensi ci lasciarono le penne in modo spesso tragico o addirittura macabro, quando morivano infilzati cadendo dentro le fosse scavate contro di loro dai vietcong e riempite di enormi chiodi affilatissimi. O, ancora, i marines caddero a decine perché dilaniati dalle mine che i giovanissimi soldati al servizio di Ho Chi Minh piazzavano proprio a ridosso dei soldati alleati quando questi osavano penetrare nella foresta. Poi la guerra finì come tutti sanno…
Oggi visito questi luoghi, avendo nella memoria i primi articoli che avevo letto con interesse nella mia infanzia, avevo sei anni, e che trattavano della infinita guerra vietnamita. Ricordo perfettamente, ancora oggi, delle foto di giornale che ritraevano soldati americani dilaniati, o vietcong fatti prigionieri. Per me la guerra era quella, la guerra del Vietnam, e nessun’altra. La Seconda guerra mondiale rimaneva prigioniera nei racconti di mio padre, la Prima in quelli di mio nonno. Ma quella del Vietnam era veramente la “mia” guerra, quella a causa della quale dovetti per la prima volta in vita mia confrontarmi con l’idea della possibilità di ammazzare i nemici, di nutrire odio per qualcuno al punto da sparargli contro. E mi trovai nella condizione di dover prendere posizione per gli uni o per gli altri. Non fu facile.
L’emozione quindi non è da poco quest’oggi, preparata dai quaranta chilometri di distanza tra il mio hotel a Ho Chi Minh City e Cu Chi: quaranta chilometri in cui si passa dalla caotica circolazione della metropoli (poco meno di dieci milioni di abitanti, ormai, ma tre milioni di motorini!) alla massima tranquillità delle campagne e delle risaie. Consumiamo un pasto deliziosamente ricco di verdure, le ottime verdure della regione, su un imbarcadero ormeggiato sulle rive del fiume Sai Gon che trasporta velocemente isolotti lussureggianti di vegetazione intricatissima. Poi si penetra nella foresta, guidati dai guardiani vestiti un po’ retro, come i vietcong dell’epoca.
Un filmetto dei primi anni Settanta ripercorre le tappe dell’epopea di Cu Chi, con linguaggio certamente legato all’epoca, all’idea di liberazione dal nemico, all’aver assistito al ritiro degli invasori statunitensi. Fosse montato oggi, probabilmente avrebbe altri linguaggi e altre immagini, ma la testimonianza è di quelle che non possono lasciare indifferenti.
Insomma, qui a Cu Chi era stata costruita una città sotterranea, con mille entrate diverse e mille trabocchetti, in modo da poter resistere e attaccare il nemico rendendosi invisibili in pochi istanti. Sotto terra c’era l’ospedale da campo e la fureria, la mensa e l’alloggio, la santabarbara e la sartoria. Di tutto, ordinato e militarmente efficiente. Tra un locale e l’altro, per collegarli erano stati scavati dei cunicoli assai angusti, sia per poter meglio resistere ad eventuali bombardamenti dal cielo, sia perché la taglia media dei vietnamiti era certamente inferiore a quella dei soldati statunitensi, per giunta sempre appesantiti e resi goffi da equipaggiamenti da Rambo.
Ed è percorrendo questi cunicoli, fisicamente parlando, che ci si rende conto di cosa significasse vivere per giorni, settimane o mesi nella città sotterranea: caldo, fatica, umidità, mancanza di luce e d’aria. Prima otto metri, poi trenta, quindi cinquanta: i cunicoli paiono infiniti, la schiena duole, la testa chiede ossigeno. I gradini di terra che conducono all’aria aperta, sotto il cielo segmentato da straordinari ciuffi di bambù, mi viene da dire che bisognava che provassi queste emozioni, per conservare nel cuore un paio di certezze: la guerra è sempre e comunque da evitare, soprattutto quelle d’invasione di territori altrui, perché le conseguenze sono sempre, dico sempre, peggiori di quelle che ci sarebbero state senza conflitto; ma bisogna anche riconoscere che l’ingegnosità dell’uomo nelle condizioni estreme di ristrettezza d’ogni genere è capace di compiere miracoli. E di passare per la “porta stretta”, o il “cunicolo stretto”.
1 commento:
Grazie di averci 'portato' in questa regione.Era come essere li con te e passapare dal 'cunicolo stretto'.
Buon Anno.
Francesco G. Scariolo
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