Il Trattato di Lisbona è in vigore. Per onorare questo nuovo passo in avanti nell'ineluttabile integrazione europea, facciamo due passi per la "capitale europea", Bruxelles-Brussels.
Non è quella che si può definire una bella città, Bruxelles, occupata com’è dall’industria e dalle istituzioni internazionali, da quelle europee in particolare, ma anche dalla Nato. La gente scorre indaffarata, parlando tutte le lingue del Vecchio continente, ma anche idiomi d’altro mondo. Non ha bisogno di bellezza antica, ma quella di vetro e metello e cemento dell’architettura cosiddetta contemporanea.
Eppure un angolo, un piccolissimo angolo di pulchritudo civitatis resiste nella Grande piazza, cuore culturale e turistico della città. Victor Hugo la chiamò "la piazza gigantesca", mentre Jean Cocteau la definì "un ricco teatro". Nel 1695 i francesi la distrussero, e si dovette attendere il XIX secolo perché fosse restaurata appieno, e riprendesse lo splendore d’un tempo. Accanto al palazzo del comune, in puro stile gotico, costruito tra il XIII e il XV secolo e fornito di una torre campanaria di rara bellezza, slanciata e ardita nei suoi 96 metri d’altezza, fanno bella mostra di sé i palazzi delle corporazioni: macellai, falegnami, tessitori, armaioli, barcaioli... Mestieri d’un tempo, oggi spesso persi nella notte dell’estinzione, soppiantati quasi tutti nell’uso dei palazzi da bar e ristoranti che offrono moules-frites cozze e patate fritte, ovviamente innaffiate da una delle straordinarie birre della terra belga e delle sue abbazie.
Di fronte al palazzo del comune, si pavesa altero e superbo il palazzo del re, ricostruito nel XIX secolo riproducendo esattamente il progetto originario del 1515, che fungeva da mercato del pane e poi da palazzo ducale.
Questo per quanto riguarda la storia e l’architettura. Ma in questa piazza non conviene entrarci accompagnando la visita con la lettura didascalica o mimetica di una guida turistica: il fascino del luogo finirebbe con l’essere totalmente annichilito dal passare ordinato da un palazzo all’altro, da una corporazione all’altra. Bisogna invece lasciarsi trascinare dalla curiosità e dal fiuto, passando da uno dei quattro lati della piazza all’altro, zigzagando, cogliendo una finestra illuminata che pavesa un soffitto a cassettoni decorato di rosso e d’avorio, e poi un’altra apertura dai vetri antichi e sconnessi che lascia filtrare tappezzerie dei Gobelins, e ancora una medievale cornice dai rinforzi slanciati che si onora di mostrare la sua ricchezza di quadri d’arte fiamminga del XV secolo. E i muri che avvolgono e racchiudono la piazza paiono scomparire per le superfici vetrate che superano di gran lunga in metri quadrati quella della pietra che sorregge gli edifici. E mi accorgo che è proprio quest’insolita ripartizione delle superfici che conferisce alla piazza il sentimento dielevazione spirituale, perché mi ritrovo a guardare verso l’alto, quasi senza osservare dove metto i piedi nel selciato di pavè.
Solo allora, penso, arriva il momento di entrare in una qualsiasi dei palazzi, come fette della grande ciambella dorata che definisce la piazza, e salirne le scale, inevitabilmente in legno, salvo quelle marmoree dei due palazzi principali e dirimpettai, cigolanti ed iregolari, spesso con gradini di altezza diseguale, accompagnate da mancorrenti usati dal tempo, riparati e riattaccati, per accedere ai diversi piani che paiono dall’interno inondati di luce anche se piove e la grisaille vince la tenzone col sole. Perché il vetro è via alla socialità cittadina, è porta alla condivisione. Nulla può rimanere segreto in queste case che s’elevano sottili e nevose verso le toiture aguisées e quasi affilate, a proteggere soffitte buie che, se non fosse per qualche abbaino, diventerebbero cieche disperazioni, dopo tanta luce. Ma la luce che filtra per quei brevi pertugi pare materializzazione del cielo.
Non è quella che si può definire una bella città, Bruxelles, occupata com’è dall’industria e dalle istituzioni internazionali, da quelle europee in particolare, ma anche dalla Nato. La gente scorre indaffarata, parlando tutte le lingue del Vecchio continente, ma anche idiomi d’altro mondo. Non ha bisogno di bellezza antica, ma quella di vetro e metello e cemento dell’architettura cosiddetta contemporanea.
Eppure un angolo, un piccolissimo angolo di pulchritudo civitatis resiste nella Grande piazza, cuore culturale e turistico della città. Victor Hugo la chiamò "la piazza gigantesca", mentre Jean Cocteau la definì "un ricco teatro". Nel 1695 i francesi la distrussero, e si dovette attendere il XIX secolo perché fosse restaurata appieno, e riprendesse lo splendore d’un tempo. Accanto al palazzo del comune, in puro stile gotico, costruito tra il XIII e il XV secolo e fornito di una torre campanaria di rara bellezza, slanciata e ardita nei suoi 96 metri d’altezza, fanno bella mostra di sé i palazzi delle corporazioni: macellai, falegnami, tessitori, armaioli, barcaioli... Mestieri d’un tempo, oggi spesso persi nella notte dell’estinzione, soppiantati quasi tutti nell’uso dei palazzi da bar e ristoranti che offrono moules-frites cozze e patate fritte, ovviamente innaffiate da una delle straordinarie birre della terra belga e delle sue abbazie.
Di fronte al palazzo del comune, si pavesa altero e superbo il palazzo del re, ricostruito nel XIX secolo riproducendo esattamente il progetto originario del 1515, che fungeva da mercato del pane e poi da palazzo ducale.
Questo per quanto riguarda la storia e l’architettura. Ma in questa piazza non conviene entrarci accompagnando la visita con la lettura didascalica o mimetica di una guida turistica: il fascino del luogo finirebbe con l’essere totalmente annichilito dal passare ordinato da un palazzo all’altro, da una corporazione all’altra. Bisogna invece lasciarsi trascinare dalla curiosità e dal fiuto, passando da uno dei quattro lati della piazza all’altro, zigzagando, cogliendo una finestra illuminata che pavesa un soffitto a cassettoni decorato di rosso e d’avorio, e poi un’altra apertura dai vetri antichi e sconnessi che lascia filtrare tappezzerie dei Gobelins, e ancora una medievale cornice dai rinforzi slanciati che si onora di mostrare la sua ricchezza di quadri d’arte fiamminga del XV secolo. E i muri che avvolgono e racchiudono la piazza paiono scomparire per le superfici vetrate che superano di gran lunga in metri quadrati quella della pietra che sorregge gli edifici. E mi accorgo che è proprio quest’insolita ripartizione delle superfici che conferisce alla piazza il sentimento dielevazione spirituale, perché mi ritrovo a guardare verso l’alto, quasi senza osservare dove metto i piedi nel selciato di pavè.
Solo allora, penso, arriva il momento di entrare in una qualsiasi dei palazzi, come fette della grande ciambella dorata che definisce la piazza, e salirne le scale, inevitabilmente in legno, salvo quelle marmoree dei due palazzi principali e dirimpettai, cigolanti ed iregolari, spesso con gradini di altezza diseguale, accompagnate da mancorrenti usati dal tempo, riparati e riattaccati, per accedere ai diversi piani che paiono dall’interno inondati di luce anche se piove e la grisaille vince la tenzone col sole. Perché il vetro è via alla socialità cittadina, è porta alla condivisione. Nulla può rimanere segreto in queste case che s’elevano sottili e nevose verso le toiture aguisées e quasi affilate, a proteggere soffitte buie che, se non fosse per qualche abbaino, diventerebbero cieche disperazioni, dopo tanta luce. Ma la luce che filtra per quei brevi pertugi pare materializzazione del cielo.
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