giovedì 17 dicembre 2009

Isfahan, i tessuti neri e le maioliche azzurre (1)


Mentre l'Iran continua nei suoi esperimenti missilistici e nelle sue "fertilizzazioni" dell'uranio, la città di Isfahan viene ripetutamente citata per i suoi siti nucleari. Visita in una delle città più belle del mondo, nel 2000, prima parte.

Non dimenticherò facilmente il fresco azzurro, il giallo abbagliante, il penetrante bianco delle maioliche che rivestono le moschee di Isfahān. Non dimenticherò i ponti slanciati e leggeri che scavalcano lo Zāyandé, il largo fiume che attraversa la città, solcato da piccole imbarcazioni dal fondo piatto. Non dimenticherò l’aridità austera e desolante del panorama che circonda l’abitato, così diversa dalla giovialità dei suoi abitanti, distesi e sorridenti come pochi altri in Iran, anche se sono noti nel paese per la loro spilorceria.

Un vecchio adagio persiano dice: «Isfahān è la metà del mondo». Ed è vero, perchè la città è così ricca di monumenti e curiosità che viene voglia di correre da una parte all’altra dell’abitato per riuscire a tenere dentro di sé tanta bellezza. Fu lo scià Abbās I, alla fine del XVI secolo, a ridare smalto a una città che aveva perso la totalità della sua importanza a causa dell’invasione dei mongoli. La sua dinastia, quella safavide, regnò più di due secoli, e dotò la città di splendidi luoghi di culto e di vita comune. Una città che è un salotto, ci hanno lasciato; una città dove si è a casa, dove le famiglie non hanno che da uscire per strada per ritrovare la propria identità.

Cosa sia la famiglia iraniana, che ruolo abbia nella società, lo intuisco in effetti nella stupenda e immensa piazza rettangolare (seicento metri su duecento) dedicata all’imam Khomeini, come si conviene nella repubblica islamica: un’enorme spazio – una volta era il campo da polo dello scià Abbās I, si vedono ancora i pali delle porte – su cui si affacciano due tra i più straordinari monumenti dell’arte islamica, Masjed-é-Shah e Masjed-é-Sheikh Lotfollah: luoghi di preghiera e di meditazione, che fanno pensare come il sostrato delle grandi religioni abbia qualcosa di unico e di universale, perché il raccoglimento che mi avvolge visitato le due moschee è qualcosa di ineffabile.

I visitatori si dilettano a visitare le moschee, a fotografare le eleganti e un po’ inquietanti silhouette nere delle donne in chador, a fare spesa nelle botteghe di artigianato dell’immenso bazar che ha la sua gola profonda, nella quale vieni inghiottito se ti avvicini troppo, su un lato piccolo della piazza. Poi, scesa la sera, sciamano nei ristoranti a mangiare pollo e riso allo zafferano. La piazza Khoimeini si trasforma; a frotte giungono i giovani e le famiglie indigene. Si siedono nell’immenso prato, tirano fuori le cibarie e giocano, scherzano, conversano, creando uno straordinario clima, intimo e conviviale. Le donne si occupano dei bambini, ma l’uomo non è assente. Quadretto idillico? No, sembra normalità.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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- Joe