sabato 19 dicembre 2009

Arbeit Macht Frei

Asportata da ignoti la scritta più celebre di tutta un'epoca, quella del terrore nazista. L'ignominia d'un gesto, la povertà intellettuale di chi l'ha commesso. Visita al campo di sterminio, 1991-2001.

È la seconda volta che scendo nel teatro dell’abominio, ad Auschwitz-Oswiecim, nel simbolo dell’incomprensibile brutalità umana. Allora c’era un sole torrido, e il forno crematorio era più plausibile. Oggi fa un gran freddo, le nuvole spargono umidità che penetra nelle ossa, gelando le membra. La gente moriva in queste casematte più di gelo e stenti che di camere a gas. I sentimenti dell’orrore sono desti, s’intuisce il baratro della Shoah. Gruppi di ebrei si avvicinano ai tetri block con lo sguardo attraversato da un’atroce inquietudine.

All’entrata, il Carmelo della discordia. Gli ebrei sostengono che ad Auschwitz Dio abbia taciuto; i cristiani invece affermano la nuova morte di Gesù nel campo di Oswiecim. E la disputa lascia di stucco, altri muri senza amore.

Percorro i viali e i block numerati, scorro le mille e mille foto segnaletiche dei martiri d’Auschwitz. I mucchi di occhiali di capelli di valigie di scarpe di stampelle di pitali sembrano scivolare come una valanga inarrestabile sulla nostra coscienza di europei. Troppo spesso sporca. Qua e là, si trova ancora qualche traccia della obsoleta propaganda sovietica. Ma appare così retorica e antiquata, oltre che falsa, da sembrare vecchia di millenni. Eppure solo dieci anni fa era ancora in voga.

Una donna ebrea giace stremata su un muretto di mattoni rossi, come tutto il resto: sul petto fiera pavesa una stella di Davide cesellata nell’oro. Lo sguardo altero dice un popolo ferito ma saldo, Dio è con noi.

Passando in rassegna gli orrori perpetrati da uomini su altri uomini, lo sguardo rischia il disgusto e l’ubriacatura. Davanti a un forno crematorio, firma della condanna a morte d’innumerevoli innocenti, mi ricordo di una frase di vertigine: se Gesù sulla croce ha gridato l’abbandono del Padre, qui Gesù ha ripetuto quel momento di strazio.

Nel baratro nero, scendo le anguste scale che conducono alla fioca luce dell’angusta cella nel braccio della morte che fu di Maximilian Kolbe. È la luce dell’amore, che da la vita per l’altro. Forse bisognerebbe eleggere anche lui a protettore dell’Europa.

Oswiecim è un villaggio banale di una regione nera, mineraria: qualche migliaio di persone, per quattro milioni di morti, vittime della chimica perversa, diabolicamente nazista o semplicemente folle. Piccolo villaggio diventato universale.

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