Mentre s'infiammano le relazioni tra Europa e Gheddafi per la "lista di indesiderabili" emessa dalla Confederazione elvetica, racconti di una visita (2007) al "Libian Jihad Center for Historical Studies" di Tripoli, il luogo della conservazione dei documenti della presenza militare italiana nel Paese. Un esame di coscienza e una serie di domande.
L’ultimo atto della mia visita a Tripoli e dintorni avviene in un centro governativo assai interessante, deputato alla conservazione della memoria storica della Libia, in particolare di quel periodo coloniale che appare di assai difficile interpretazione se ci si basa solo sulla reazione della gente. Da una parte, infatti, appare evidente come la colonizzazione italiana sia stata una semplice colonizzazione, punto e basta, violenta e certamente inibitoria della cultura locale. Ma nel contempo i libici manifestano assai raramente un qualche astio nei confronti di noi italiani, certamente meno di quanto non ne manifestino verso altri popoli europei o verso gli statunitensi.
Nella sede assai dignitosa e per certi versi anche ricca del centro, lavorano alcune centinaia di persone per mantenere vivo il ricordo del passato. È gente attenta e semplice, sorridente e in ogni caso, accogliente. Qui spesso e volentieri vengono degli studiosi italiani per effettuare delle ricerche storiche in archivi che paiono ben tenuti, anche se l’informatica deve ancora soppiantare i microfilm e le schede perforate. Ma già si sta operando per la modernizzazione dei depositi di libri, foto e registrazioni.
A capo dell’istituto storico c’è un personaggio dalla rara cultura e dalla semplicità contagiosa nei rapporti: è il prof. Mohammed T. Jerary. È gentilissimo, e risponde ad ogni domanda con una parlantina fluidissima, ricca di sorprese e di contrappunti. Tutti dicono che il professore abbia il rango d’un ministro della cultura. Sembra averne la stoffa, anche se si schermisce di continuo. In poche parole riesce a descrivermi il lavoro del centro da lui diretto: preservare la cultura libica. E ciò grazie a una libreria di 250 mila volumi, a un deposito di un milione di documenti (libri e documenti sono di varie lingue), grazie a 600 volumi pubblicati, a 100 mila foto raccolte in tutta la Libia, a 5 mila manoscritti alcuni di grande valore. I collegamenti con le università locali ed europee sono quotidiani, così come le decine di congressi che vengono organizzati ogni anno dal centro. Al centro dell’interesse degli studiosi e degli impiegati del centro c’è ovviamente il periodo coloniale e la seconda guerra mondiale, fino al 1943. Unica lamentela: la scarsa collaborazione del governo italiano e anche di alcune istituzioni universitarie di casa nostra.
«Abbiamo bisogno degli italiani – mi spiega –, anche perché in termini umani siamo molto vicini. Il colonialismo è stato un periodo duro, e gli italiani non sono stati molto meglio degli inglesi o dei francesi. Ma sentiamo che siamo a voi più vicini che ad altri popoli europei» Una premessa incoraggiante: «In ogni religione – prosegue – ci sono estremisti e gente normale. La religione è qualcosa di cui avere cura nella vita umana, senza però farla interferire con il sistema politico. Così noi libici musulmani non abbiamo nulla contro i cristiani, coi quali abbiamo tante cose in comune: emozioni, pensiero, odio e amore. La difficoltà viene da una parte dal fatto che troppo spesso si sente dire che non siamo diversi, che siamo uguali, cancellando così le diversità; ma dall’altra sentiamo troppo spesso dire che siamo diversissimi, e che nulla ci unisce. Come sempre serve equilibrio. Dobbiamo metterci lealmente gli uni di fronte agli altri, e scopriremo che quello che ci unisce è più vasto di quello che ci divide. Io vado alla moschea e tu in chiesa, ma possiamo capirci, vivere insieme, apprezzarci, amarci, prendere il caffè insieme…».
Prosegue il prof. Jerary: «A lungo termine non possiamo che ipotizzare la convivenza tra i popoli e le religioni. Siamo in certo modo condannati a vivere insieme. È quindi logico e lungimirante cercare di capirci e penetrare nel pensiero dell’altro. Ci sono eredità pesanti che non possono essere dimenticate, ma bisogna riuscire nello stesso tempo a non farci schiacciare da esse».
Poi concentra lo sguardo sulla situazione politica palestinese: «Risolto il problema politico dello Stato palestinese, tante cose andranno a posto, e terroristi e fondamentalisti diventeranno sempre più una residua minoranza. I palestinesi però stanno soffrendo troppo, sono trattati come cani. Gli ebrei, ovviamente, sono come noi esseri umani, e quindi non posso e non devo odiarli. Ma bisogna riuscire a trovare una soluzione per ridare ai palestinesi libertà, terra, dignità. Siamo tutti uguali».
Passiamo poi alla questione libica: «La Libia ha un ruolo importante da giocare nell’aprire le mentalità della gente araba, sia dal punto di vista religioso che umano. Il velo obbligatorio, ad esempio, non è accettabile, non ha riscontri scritturistici definitivi. Sono d’accordo con questa tesi. Ma nello stesso tempo non si può ridurre la libertà a liberalismo, politico, filosofico o economico. Abbiamo bisogno della libertà, che è fatta di cultura e di religione. Il governo libico sta facendo grandi sforzi per mostrare che l’Islam è qualcosa di razionale e umano, e non è quello che si dice in troppi Paesi occidentali, cioè arretrato e irrazionale. Il ruolo della Libia è intellettuale e umano nello stesso tempo».
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