Obama riceve il Dalai Lama, che esce da una porta secondaria, dove scaricano le immondizie. Riporto le note di un incontro con un monaco tibetano nel monastero di Jokhang (dicembre 2006).
Dal cortile interno parte pure una ripida scaletta decorata in ogni suo elemento – anche i mancorrenti indispensabili per la salita e, soprattutto per la discesa – di rosso, verde e giallo, esclusivamente lignee. Attraverso di esse si accede dapprima alla terrazza del primo livello, quello delle abitazioni dei monaci – un palazzo dipinto d’arancio indica il luogo dove abita il priore –, e poi al secondo livello, quello che non ha altra funzione se non quella di aprire lo sguardo sull’infinito del Cielo e sul finito circonchiuso delle sue montagne, cioè della città di Lhasa.
Decorazioni dorate – toccante è quella centrale, che rappresenta i raggi della ruota della legge, con gli otto sentieri dell’illuminazione buddhista, sorvegliati e riveriti da due cerbiatti accucciati – si stagliano sull’azzurro intenso del cielo baciate da un sole da urlo, e indicano l’imponente Palazzo di Potala sovrastano l’abitato regolare della città, purtroppo ormai vulnerabilissima al cemento e alle sue brutture consumiste. Un gruppo di fedeli, guidate da un monaco, sfilacciano tessuti per farne preghiere votive, con le loro facce paffute e spesso ricoperte di burro di yak essiccato, per proteggerle dalla violenta potenza dei raggi solari a quest’altezza di 3600 metri. Una monaca spazza il terrazzo come se stesse mostrando al mondo come ci si avvicina all’eterno.
Un giovane monaco guarda tutt’attorno a sé la cinta di montagne brune che proteggono Lhasa, ma che nel contempo la minacciano. Sanghe, trent’anni, è in questo monastero da 18 anni. S’è fatto servitore del Buddha «per semplice amore della fede». In un inglese appena comprensibile, mi spiega come la religione dei tibetani sia «indistruttibile perché nessuna potenza, nessun dittatore potrà mai impedire loro il rito e la venerazione».
I monaci sono tanti, non solo quelli che prestano servizio al monastero, un centinaio o poco più, ma anche quelli che vengono in pellegrinaggio a Jokhang. Le residenze dei monaci, apparentemente aperte, s’agglutinano ai lati di lunghi corridoi coloratissimi, attorno a portici e cortili, nascosti in anfratti improvvisi; vagando in questo dedalo, si può facilmente incontrare il sorriso d’un monaco, molto spesso bisognoso di un passaggio dal dentista (magari non quello che troverò più tardi poco distante dal tempio, dove ognuno sceglie in una vetrina di più che dubbia sterilità il suo dente preferito, che un uomo solerte provvede a installare, senza anestesia e senza disinfettanti).
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