Attentato a Puna, proprio mentre si annuncia la ripresa dei negoziati di pace tra i due colossi del subcontinente. Visita (2005) al posto di frontiera di Wahga, in cui si coglie la tensione infinita e nel contempo il mai sopito desiderio di convivenza tra i due Paesi.
Vicino a Lahore, nel Punjab pakistano, esiste un luogo che dalle nostre parti si stenterebbe a credere che possa esistere. Si tratta del posto di frontiera più importante tra Pakistan e India, i fratelli nemici dal tempo della separazione tra i due stati. Ad una trentina di chilometri dalla città, raggiungibile percorrendo un lungo tratto di strada che costeggia un canale che collega i due paesi, superato non senza difficoltà un mercato dove si vende di tutto e di più in una confusione – la solita – assolutamente indescrivibile e nemmeno fotografabile o filmabile, perché è impossibile riprodurre gli odori, terribili miasmi e soavissimi profumi. Poi, al termine di un lungo rettilineo costeggiato da forni per mattoni e da poverissime capanne occupate dai profughi afghani, ecco il posto di frontiera di Wahga, annunciato da uno strano stadio semicircolare, rivolto verso il paese nemico. Un passo avanti, ed ecco un altro stadio, questa volta al di là dei due cancelli che segnalano la frontiera, rivolto verso il Pakistan. Poco alla volta gli spalti si popolano di uomini e donne (al di qua separati sugli spalti, al di là invece in promiscuità), armati di bandiere del proprio paese e da una forte vena nazionalistica, come traspare dagli slogan e dalle facce dei partecipanti al singolare spettacolo. Sì, perché di uno spettacolo si tratta, messo in scena dalle guardie di frontiera dei due paesi al momento della chiusura (ma anche all’apertura, alla mattina, senza spettatori), secondo un rigidissimo cerimoniale concordato tra le parti con un lunghissimo iter diplomatico costantemente sotto osservazione.
Mentre dagli spalti si leva un tifo da stadio – che talvolta, però, trascende la sportività di cui dovrebbero essere portatori i veri supporter di un campo –, nella via che separa i due stati i ranger da parte pakistana e i corazzieri da parte indiana si scambiano gesti e parole e gridi di sfida e di superiorità, applauditi e osannati dai rispettivi supporter. Qualcosa di incredibile, che dice tuttavia la straordinaria vena nazionalistica che abita entrambi i paesi, ancora sotto l’onda lunga della separazione vissuta traumaticamente da parte indiana e come una liberazione da parte delle popolazioni musulmane trasferitesi nel nuovo stato o già lì stazionanti. Da parte pakistana scorgo gesta e grida che paiono oltre il limite dell’odio; ma anche qua e là il sorriso di sapere che non si sta facendo sul serio. I turisti sono pochissimi, per via della stagione; ma anche loro se la godono un mondo e partecipano al tifo. Una differenza tuttavia esiste: se da parte indiana si tende ad inscenare delle danze, da parte pakistana l’invocazione orante di Allah è dominante.
Poi, al termine dell’ammaina bandiera effettuato congiuntamente e contemporaneamente – ma assolutamente separati dai pochi centimetri della linea di confine –, per alcuni eletti (stranieri e raccomandati) viene concesso l’accesso ad un piccolissimo piazzale dove si può farsi fotografare con i soldati pakistani e indiani, alcuni addirittura a cavallo, seppur separati da una barriera metallica orizzontale. Finché colgo due soldati di campo avverso che si scambiano qualche parola, subito rimbrottati dai loro capitani. Se si invertissero le uniformi farebbero la stessa figura, e nessuno dubiterebbe dell’etnia dell’altro. Così è, il popolo è lo stesso, ma la politica (e un’interpretazione massimalista della religione) ha provocato la frattura. Dieci minuti, poi via, ci si ricomincia a guardare in cagnesco, e le dispute diplomatiche, le recriminazioni via media, le ripicche e le gelosie riprendono a pieno ritmo. Fino a domani, quando ancora una volta il cerimoniale prevederà l’alzabandiera e poi l’ammainabandiera.
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