mercoledì 3 febbraio 2010

Tibet. Il monastero mimetico alla montagna


Mentre Obama progetta d'incontrare il Dalai Lama e le relazioni Usa-Cina s'infiammano di nuovo, vi offro una visita a Drepung, uno dei massimi centri di formazione dei monaci buddhisti tibetani (dicembre 2006).

A soli otto chilometri dal Palazzo Potala, vanto di Lhasa capitale d’un Tibet orfano del Dalai Lama, m’immergo digià in un altro mondo. In una valle che s’inerpica a sud verso le cime brulle e inospitali delle montagne tibetane, giacciono due grandi monasteri certamente meno importanti e pretenziosi del grande e venerato Jokhang, ma forse più sinceri, più a misura d’uomo. E di monaco. Forse non a caso qui essi sono ben più numerosi di quelli, 150, che abitano nel monastero-madre a Lhasa. Raggiungono le 895 unità. Due monasteri a misura d’uomo, insomma, seppur con scale decisamente più mozzafiato rispetto al monastero più celebre.

Non c’è tempo per visitre entrambi i luoghi, e quindi debbo optare per quello più elevato, Drepung, che in tibetano significa “mucchio di riso”. E un mucchio di riso da lontano lo sembra sul serio, con le sue manciate di edifici bianchi gettati sulla bruna montagna. Drepung fu fondato nel 1416 da un discepolo del fondatore dei “cappelli gialli”, Jamyang Choje, e conobbe l’apice del suo splendore nel XVII secolo, quando poteva contare sulla presenza in loco di ben 10 mila monaci! Anche questo monastero propone una serie di cappelle, di sale, di residenze, di cortili… Su grosse rocce attigue al monastero sono dipinte raffigurazioni e immagini buddhiche, talvolta tracciate sulle rovine degli edifici andati in disuso nei secoli. C’è poca gente in giro, si respira rispetto alla confusione indescrivibile (pur affascinante) incontrata al tempio di Lhasa. Qui si può capire meglio l’interiorizzazione spinta cui invita la Via della luce buddhista.

I monaci sbucano qua e là, impegnati chi a trasportare acqua, chi ad accatastare legna, chi a istruire i visitatori, chi a controllare che nelle cappelle si paghino i dieci o venti yuan prescritti per scattare foto o fare riprese video. Questi monaci vivono certamente dell’elemosina abbondante della povera gente che qui sfila in pellegrinaggio, più che del loro lavoro. Nel complesso paiono assai ignoranti e un po’ zotici, e sicuramente tanti di loro sono monaci solo perché “si fa così”, solo perché così almeno una manciata di riso al giorno ce l’hanno assicurata. Ma negli occhi di taluni di loro scoppia letteralmente il senso del divino, la serenità di una vita consacrata alla divinità, o forse solo al Buddha eterno.

Le finestre di questi monasteri sono invariabilmente racchiuse in una cornice nera che nell’ascendere si restringe, così come tutti gli edifici dei monasteri sono iramidi tronche, quasi volessero non solo imitare la forma delle divine montagne, ma dire all’essere terrestre quanto si debbano concentrare le proprie forze nell’ascesa, nella costante ascesa che diventa ascesa-ascesi, seppur gioiosa.

Nei cortili sopravvive qualche albero, talvolta persino di età secolare, grazie alla protezione delle mura e alla venerazione della gente. Sulle montagne si notano qua e là le strisce colorate delle preghiere della gente, issate nei luoghi più impervi e impensabili. Stanno e si sfilacciano al vento impetuoso della regione, osservate da un monaco che s’è inerpicato su un comignolo dorato, ma di rame. Le cappelle si succedono ai cortili, alle sale di riunione, alle cucine, ai portici, in un incatenamento che sfugge alle logiche della ragione cartesiana. Poco male. Qua e là dei mendicanti tendono la mano, probabilmente quegli stessi che abitano le stamberghe attigue al monastero, ricavate da anfratti rocciosi o dalle rovine dei precedenti romitori. Vivono di pochi yuan, così come i monaci, che però possono usufruire delle banconote che i pellegrini abbandonano in ogni angolo del monastero. Vita dura la loro, dominata dal silenzio che però, in un monastero buddhista, non può essere mai totale. Il silenzio buddhista ha da essere innanzitutto interiore.
Un vecchio monaco mi vede, viene da un angolo dove sono accatastate tonnellate di legna presa chissà dove. Mi sorride, mi dà la mano, accetta di farsi fotografare dinanzi agli stupa dorati e al cielo azzurro come la profondità dell’iperuranio. Un monaco più giovane, in visita al monastero, mi segue curioso di ogni mia mossa, della mia scrittura sul taccuino, delle foto che scatto, delle cose che osservo. Mi dice, dopo innumerevoli sforzi linguistici e gestuali: siamo fratelli. Non posso che convenire, e prendermi un abbraccio odoroso di sterco di yak e di incenso.

Dinanzi al collegio dove studiano i futuri monaci, assisto a una scena che meriterebbe l’occhio d’un grande regista, d’un fotografo d’eccezione: una dozzina di loro spazza con minuscole scope, che li costringono a chinarsi a 90 gradi verso il suolo, gli erti scalini del tempio. Nei loro gesti e nei loro volti si legge una gioia straordinaria, un’allegria contagiosa, una noncuranza delle regole di una pulizia fatta ad arte per privilegiare il momento della convivialità, della fraterna condivisione. Si uniscono e si separano, mi accolgono e m’interrogano, mi fanno sentire importante. Nei loro sguardi ci sono secoli di bontà.

Scendo rapidamente per viottoli di pietra col costante sfondo delle montagne e del cielo. All’uscita decine e decine di venditori di souvenir non voglio tradire la tradizione di ogni fede di attirare il soldo attorno ai luoghi di culto. Pochi yuan al giorno debbono guadagnare, ma non si lamentano. Abitano attorno al monastero, come accadeva per i benedettini nel Medioevo europeo.


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