Un giro per le vie dell'ex Saigon. La scoperta di un mondo che corre, che non conosce il silenzio. Salvo nell'anima.
Saigon, cioè Ho Chi Minh City. Un nome che rievoca fantasmi nemmeno troppo lontani, che richiama fasti coloniali e il crollo verticale delle illusioni della pax americana. Dal 1975 sono passati ormai troppi anni per poter rievocare traumi e nostalgie dello scorso millennio. Resta solo da guardarla al presente, questa metropoli avviata verso i dieci milioni di abitanti, senza preconcetti. E allora si trova una città che ha ancora molto di occidentale, ma che nel contempo non è ancora (o non è più) un avamposto della accidentalità, colonialismo ribattezzato come liberalismo economico. Ma il business c’è, e ben evidente: basta che non si faccia politica, basta che non si vogliano implicazioni religiose agli affari intrapresi, ed ecco che tutto è possibile, e nessuna impresa rimane nel novero dell’impossibile.
Francamente detto, non è che Saigon-Ho Chi Minh City sia una bella città. Tutt’altro. Si fatica non poco a trovarne l’anima, a sviscerarne la vocazione cosmopolita, a coglierne la sua fondamentale tolleranza. Perché la città è runorosa come poche, non sa nemmeno cosa sia il silenzio, oi semplicemente cosa sia una pausa nel rumore che a volte diventa intollerabile. Sì, puoi ammirare i residui coloniali: la posta, la cattedrale neogotica, gli hotel sul lungofiume, qualche bella demeure à la française; certo, puoi apprezzare invece il lato neocomunista, in dubbioso neoclassico, nel palazzo presidenziale e nel museo dei residuati bellici. Ma così facendo non conoscerai Saigon-Ho Chi Minh City. Per farlo devi farti coraggio e passare tre-quattro ore assiso nel posto del passeggero in uno dei tre milioni di motorini che da qualche tempo hanno rimpiazzato le biciclette, e non sono ancora stati sostituiti dalle auto (se lo si facesse, la città dall’oggi al domani si bloccherebbe completamente!).
Insomma, si può capire Saigon-Ho Chi Minh City studiando la fenomenologia del motorino vietnamita e della mente dei suoi centauri. Motorini sui quali si può salire da una a cinque persone: intere famiglie li usano come mezzi di locomozione collettivi. Sui motorini, poi, si può trasportare di tutto: nulla è impossibile: cataste di legno, fascine di bambù, decine d’oche starnazzanti, frigoriferi e lavatrici, comò e divani, cani e gatti, alberi, biciclette, cavi per l’alta tensione, computer, materassi…
Bisogna poi studiare attentamente la guida, operazione che richiede non poco tempo e scrupolosità nel cogliere i dettagli. Perché dapprincipio si viene colti da un totale smarrimento, non riuscendo a ritrovare i nostri standard del codice della strada. Così le auto camminano a sinistra e le moto a destra, ma da sinistra si può entrare tranquillamente senza rispettare il flusso idraulico, direi così, del fiume di motorini anche di una grande via di comunicazione. Il pertugio lo si trova sempre. E si può addirittura attraversare a piedi la più caotica arteria, uscendone vivi e vegeti, per giunta. Pure le biciclette hanno i loro diritti e i loro doveri, e così le auto che non possono passare col rosso, pena trenta giorni di sequestro del mezzo, mentre i motorini possono farlo a certe condizioni, che però non ho capito.
E così via: anche nel caos ci sono delle regole da rispettare. Ancora, nello studio della fenomenologia dei motorini di Saigon-Ho Chi Minh City si dovrebbe analizzare le forme, la cilindrata e gli optional dei mezzi meccanici, il loro incredibile potenziale d’inquinamento, la tipologia e i colori delle mascherine che uomini e donne usano non tanto per proteggersi bene o male dal diossido di carbonio, quanto per evitare di prendere il sole, in quanto l’abbronzatura è detestata dai vietnamiti (e soprattutto dalle vietnamiti), che vogliono sempre avere la pelle chiara.
È quindi solo sui motorini che la città comincia a muoversi, a prendere i colori delle infinite insegne, ad aggrovigliarsi e annodarsi negli incredili cavi elettrici sospesi a mezz’aria, a diventare giovane come giovani sono la stragrande maggioranza dei centauri, a trovare sempre nuovi scorci di meccanica originalità, a penetrare ancora a cavalcioni dei motorini nei mille e mille mercatini di frutta e verdura, a scegliere un orologio di marca in cento e cento banchetti improvvisati sul ciglio delle vie per un dollaro o poco più, a sentirsi la testa scoppiare per le enormi quantità di diossido di carbonio ingurgitate, a desiderare solamente di riguadagnare il porto di salvezza della propria abitazione, a sognare il silenzio. Che a Saigon-Ho Chi Minh City esiste solo nell’immaginazione, o nell’anima.
1 commento:
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