Primo giugno 2008. Il castello degli architetti, Hvitträsk.
Ci sono di quei momenti in cui vorresti una cosa sola: startene isolato, sparire da quella parte preponderante della faccia della Terra dove si trovano altri umani deambulanti. Ma spesso sono proprio questi momenti di tedio – non riesco a definirli altrimenti – che possono riservare le sorprese più apprezzabili e apprezzate. Così m’accade dopo l’affascinante ma stancante visita al lago di Tuusula, alle case di tanti grandi artisti finlandesi. La nostra guida vuole a tutti i costi portarci a visitare – «dieci minuti, solo una goccia del vostro fiume di tempo», dice proprio così – un luogo appartato nella grande area di Helsinki, il sito chiamato Hvitträsk. Un nome quasi impossibile da pronunciare, ma in questo, almeno, interessante.
La storia del luogo è presto detta: nel 1896, tre giovani architetti – Eliel Saarinen, Herman Gesellius e Armas Lindgren – vengono designati dal governo per progettare il padiglione finlandese all’Expo di Parigi del 1900. Il successo è straordinario, universalmente riconosciuto. È il trionfo dello stile chiamato “nazional-romantico”. In una sorta di eccitazione creativa, umanamente ricchissima, decidono di trasferire il loro atelier dalla capitale in un luogo isolato, che domina il lago Vitträsk, il “lago bianco”, dalle parti di Kirkonummi. I tre decidono di edificare ognuno la propria abitazione, col solo vincolo dei principali materiali di costruzione: tronchi di legno locale e granito. Armas Lindgren progettò l’ala a nord del palazzo principale, collegato quindi a quello di Eliel Saarinen, mentre Herman Gesellius disegnò la Villa nera, di fronte ad esso. IL tutto a formare una corte adornata con tutti i fiori possibili ed immaginabili dal finlandese.
Il sodalizio, che pure aveva portato all’edificazione di qualcosa come settanta palazzi in tutta la Finlandia e anche al di fuori di essa, ben presto si sfascia: Lindgren ritorna dopo due anni a Helsinki, perché ha vinto la più importante cattedra d’architettura di Finlandia, e non vuole rinunciarvi; Gesellius non sta bene di salute, e morirà ben presto; Saarinen si trasferisce con tutta la famiglia negli Usa, tornando sul posto una volta all’anno, per due mesi, d’estate. Troverà anche il tempo di progettare nel 1919 una delle più straordinarie stazioni ferroviarie d’Europa, quella di Helsinki, appunto, quella coi quattro lucernari retti da tedofori impettiti che sono diventati uno dei simboli della capitale finlandese. Tutto granito rosso, s’il vous plaît.
Fin qui la storia, interessante nella sua esemplarità. E nella dimostrazione che la comunità artistica è un esercizio estremamente periglioso, ma con risultati talvolta stupefacenti. Come lo è indiscutibilmente Hvitträsk. Luogo che va abbordato con cautela, iniziando senza dubbio da una visita al “lago bianco” (meravigliosa la sauna progettata dallo stesso Saarinen proprio sul pelo dell’acqua). La natura è stupefacente, i boschi incantevoli: scorgo scoiattoli e camosci, volpi e cerbiatti. Raccolgo un nido per terra, un capolavoro d’architettura, fantasioso come nessuno potrebbe inventare, attraversato da strisce colorate, punteggiato da cerchietti candidi, da piume svolazzanti anche se incastrate al centro dell’incavo, intessuto di erbe secche profumate e dalle forme dettate dalla fantasia del creatore e delle sue creature volanti.
Ed è proprio questo piccolo nido che mi guiderà nella visita alla casa, ora museo, di Saarinen, perché nelle sue strutture e nelle sue decorazioni mi sembrerà di cogliere gli intrecci, i colori e le trame disegnate proprio del “mio” nido. L’edificio è un vero e proprio concentrato di straordinaria fantasia creativa, di attenzione al dettaglio, di naturalistico sforzo d’imitazione, di soluzioni architettoniche ardite, di vivacissime tonalità, di stufe maiolicate di grigio e di rosso, a scacchi, di verde e di azzurro, a losanghe, di viola e di rosso, oh il viola-rosso di Saarinen, lo si sogna anche la notte! E ricami affrescati ovunque e tessuti intrecciati nella stessa abitazione, nei sottoscala, nelle cantine, nelle terrazze, colori vivacissimi e forme che appaiono primitive, selvagge quasi, ma che in realtà sono il risultato del romanticismo architettonico finlandese, romanticamente debitore alla natura e alla sua chiaroveggenza. Al “mio” nido.
Salgo scale di legno che portano dove meno me l’aspetto, strette o larghe, scure o chiare, ora accompagnate da mancorrenti monumentali, ora ingentilite da decorazioni da bambole. Visito salle de bain che paiono salotti, e saloni di rappresentanza che paiono tinelli approntati per i bambini della casa. Le finestre: quadri naturalistici, ovviamente, sembra che siano dipinti di Halonnen, dettagli d’alberi, cieli e acqua che completano l’arredamento con un tocco di sbarazzino movimento, quello che dentro è solo suggerito dalla mobilità delle forme. I mobili paiono delle sculture, ma sono pratici; le librerie riempiono gli anfratti più inverosimili, rendendoli giganteschi. I luoghi più banali avvampano di senso.
Ma c’è finalmente da lasciare questo paradiso di aranci, di rossi, di verdi, di gialli. C’è da tornare a valle. Prima di partire – ultimo slancio d’ammiratore – risalgo di corsa su per le strette scale di servizio (o forse sono quelle principali?) per ritornare ancora una volta in un luogo che mi aveva toccato nel profondo, la modesta terrazza sommitale. M’aveva affascinato nella sua semplicità. Scatto una foto, un sola, l’ultima delle tante della giornata. La sera trasferisco le foto digitali sul computer. Mediocri, quest’oggi, non c’è dubbio. Tranne l’ultima istantanea, quella della terrazza. Il paesaggio lacustre è perfettamente a fuoco, alberi e acqua e cottage, inquadrato nell’apertura della terrazza ricavata nel tetto spiovente, uno squarcio rettangolare, con i vertici superiori smussati e la colonna di sinistra ricoperta di scaglie di abete bruciato dal gelo. Scopro con mia sorpresa che c’è tutta la Finlandia, in questa foto, la sua natura e la fantasia della sua gente.
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