mercoledì 1 luglio 2009

Diario di viaggio in Cile/1

26 dicembre 2008

In volo sulla pampa e sulla cordigliera
Partenza puntualissima da Buenos Aires. Hostess gentili e gente affabile, bella. Bella non cero nel senso del glamour o del gossip, ma nel senso degli sguardi. Subito ci si innalza sull’immensa pampa, che non sembra proprio voler conoscere un qualsiasi confine, a parte quelli delle coltivazioni. Sotto l’aereo scorre un immenso tessuto a scacchi, a rettangoli, a rombi e trapezi: geometricamente segmentato, insomma. Gli abitanti paiono pochi, piccoli ed estremamente distanziati gli uni dagli altri. E naturalmente, a rassicurare e a governare l’immensa distesa argentina, ecco il cielo celeste – più che azzurro o blu –, quello della bandiera argentina. Qualche nuvola bassa increspa la terra, quasi col desiderio di movimentare in qualche modo il lento, lentissimo scorrere del tempo della pampa andina. Ma delle Ande non si scorge la minima ombra…
Finalmente qualcosa appare all’orizzonte, avvolto in un velo lattiginoso che si frammenta e si sfilaccia a mano a mano che sotto di noi scorre un’immensa coperta scozzese dai colori pastello, segmentata da lunghe teorie bianche, le strade sterrate della pampa del Cono Sud. All’altezza di San Luis appare come un immenso rene rossastro, una laguna in penuria d’acqua. Poi riprende la pampa, ma meno curata, perché sale verso la Cordigliera più lunga del mondo.
Ed eccole, finalmente! Le Ande, dapprima piccole nella lontananza che turba la quiete dell’orizzonte. Vette, massicci che s’avvicinano maestosamente coi loro pinnacoli, le loro coste imbrunite dall’estate, l’altera solitudine nella pur estesa compagnia di innevamento. Riconosco un Adamello, un Monte Rosa, un Cervino persino, forse un Cevedale. Poi abbandono le ricerche di somiglianza, catturato dal loro imponente approssimarsi – sembra addirittura che l’aereo non debba farcela a superare la paratia rocciosa che ha permesso, da sola, la nascita della nazione più bizzarra al mondo: il Cile, quasi 5 mila chilometri di lunghezza e 140 di larghezza media…
Si distinguono finalmente le singole cime, i contrafforti si stagliano precisi, le lingue dei ghiacciai si disegnano con chiarezza. È una barriera bianca che ci si avvicina, una sconfinata rete di valli, un immenso grumo di cime, un mare di gradini che s’appoggiano l’uno sull’altro. Ma Dio, come potresti non esserci? Come potrebbe il freddo caso aver inventato tali inafferrabili grandezza e bellezza?
Ma la discesa verso Santiago comincia ancor prima di scavalcare la Cordigliera! L’Aconcagua, 6.960 metri sul mare, pare disponibile a farsi solleticare le cime frastagliate. Ciuffi di punte, mazzi di cenge, un campionario infinito di abissi, la lotta della neve col sole, l’orizzonte piatto che muta in orizzonte mosso, un bianco e spumeggiante mare in tempesta. E si scende e si scende con un pizzico di incertezza sulla reale efficacia degli altimetri di bordo. Sembra che il pilota voglia dar sfogo alla sua perizia, incuneandosi nella vallata che protegge a sud l’Aconcagua: una virata brusca, un’altra, una terza e la più alta delle vette andine è qui, a portata di mano, a portata d’anima, quasi quasi riesco a individuare le cordate di alpinisti, pardon di andinisti, che la stanno violando.
Poi, d’improvviso, la tavolozza dei colori ocra riprende possesso del paesaggio. E laggiù, oltre un’altra minore cordigliera, il Pacifico. Ancora virate dell’aereo su laghi e valli e forre e campi, manovre che trasmettono ebbrezza ed entusiasmo, sentimenti di gioia ineffabile, quasi brutale. Fino a ritornare dagli umani, lillipuziani, con le loro ordinate casette da bambola. E con la loro immensa, fuligginosa Santiago del Cile. Benvenuti nel Paese più bizzarro del mondo.

Una città ordinatissima
Avendo conosciuto numerose altre metropoli sudamericane – Buenos Aires, Bogotà, San Paolo, Recife… – mi aspettavo qualcosa di profondamente diverso, di convulso e approssimativo, anche di discretamente sporco. E invece Santiago del Cile colpisce sin dal primo momento per l’ordine e la pulizia, per i lunghi viali alberati resi indistintamente gradevoli dalla luce penetrante dell’estate boreale, per il traffico ordinato anche se a tratti intenso, per gli edifici dalle finiture curate, per la gente vestita con cura ma senza spocchia, per la scarsità dei pannelli pubblicitari, per gli autobus non ammaccati o scrostati. Insomma, una città che non ritenevo esistesse in America Latina. La diversità del Cile, per millenni protetta dalla Cordigliera, appare subito evidente.
Sono alloggiato in un quartiere intermedio tra la parte più povera e quella più ricca della città, direi una zona piccolo-borghese, Nuñoa, composta da villette basse – mai dimenticare che questa è zona altamente sismica –, in un’abitazione rosso pompeiano ad un piano, che conta ben tre cortili. Gradevolissima, piacevole da abitare. La vegetazione è esuberante, nonostante il clima secco e caldo: qui la notte la temperatura scende fino ai dieci gradi (si dorme che è un piacere) e con una buona umidità, mentre durante la giornata la temperatura si triplica abbondantemente e diventa molto secca, e quindi sopportabile, a condizione di proteggere capo e bulbi oculari.
José Maria Quintas, amico spagnolo, mi conduce per un viaggio introduttivo alla città, nel quartiere che di Las Condes, che i santiagueñi chiamano “Sanhattan”, che si snoda ai lati dell’arteria principale della città, che l’attraversa da nord a sud e che, superata la seconda cordigliera, arriva poi al mare. Debbo dire che fa impressione tutto il quartiere, la sua pulizia, il suo ordine e la sua efficienza, così come il cantiere di quello che vuole essere l’edificio più alto dell’America Latina, un grattacielo che avrà sessanta piani e quindi più di duecento metri d’altezza. Pur essendo Santiago in zona sismica.
Saliamo poi, dopo una necessaria siesta, sulla collina del Cerro San Cristóbal, un magnifico parco che separa la parte settentrionale e quella meridionale della città. La si può ammirare, smog e foschia permettendo (d’estate sono quasi una condanna), nella sua sconfinata interezza: più di un terzo dei cileni, cioè tra i cinque e i sei milioni di abitanti, la abitano. I ricchi sempre più a nord e ad oriente, i poveri sempre più a sud e ad occidente: retaggio della difficile conciliazione per la distribuzione del reddito provocata in modi diversi – ma alla fine convergenti – da Allende il massone e da Pinochet il dittatore (il giudizio morale sul comportamento politico dei due è invece sin troppo chiaro…). Ma non è la politica che colpisce da questa cima, raggiunta da folle di cittadini, soprattutto a piedi o in bicicletta, quanto la straordinaria bellezza dell’abitato moderno che contrasta così radicalmente con le montagne che lo circondano, brulle e scurite dall’arsura secca dell’estate. Pare di avere a che fare con un mare di cemento ben ordinato, quasi un tappeto andino in cui la trama emerge solo se lo guardi attentamente, lasciando piuttosto l’impressione di una tessitura armoniosa, senza nodi, colorata di contrasti e decorata di fantasia. Così paiono pure i suoi abitanti…

A cena con Carlos Catalán
Personaggio fuori dal comune è Carlos Catalán, un accademico di sociologia (dei media e del consumo), un antropologo nel senso più ampio del termine, un cattolico al limite del cattolicesimo, un ex-marxista ancora al limite del marxismo, un vulcano d’idee e conoscenze, già direttore del canale tv cattolico, fondatore in epoca dittatoriale di una rivista culturale di peso ("Apsi"), all’epoca semiclandestina… Un po’ di tutto. Ci conosciamo in uno dei tanti improbabili ristoranti della capitale, La Maison de France, dove tuttavia si mangia come dei re. O almeno dei principi. Mi accompagna un giovane politico, Ivan Bravo, che ha molte frecce nella sua faretra.
La conversazione fluisce nella frescura della serata – ceniamo all’aperto –, anche perché Carlos è una miniera senza fondo di ricordi, riflessioni, critiche, aperture inattese. Riporto qualche sua affermazione, a cominciare dai suoi commenti sulla situazione ecclesiale cilena: «In Cile la Chiesa era una grande potenza presso la gente e presso il governo: aveva una forte sensibilità sociale, aveva ad esempio voluto e promosso la riforma agraria, aveva una grande dinamicità. In America Latina, dopo quella brasiliana, la Chiesa cilena era la più rispettata. Certo aveva una fortissima valenza pastorale, meno teologica, come dimostra il fatto che tra i grandi della Teologia della liberazione non c’era nessun cileno. Ora sembra che il peso specifico della Chiesa cilena sia diminuito, anche se il nostro Paese è quello che al mondo ha una maggior penetrazione dei nuovi movimenti, dopo Italia e Spagna. Basti pensare alla presenza di Opus Dei, Neocatecumenali, Legionari di Cristo, Schoenstatt e anche, seppur in misura più contenuta, i Focolari. Tutti i movimenti che ho nominato, tranne gli ultimi, hanno avuto un grande vantaggio dal “cambiamento del vento”, meno attento al sociale e ai diritti umani e più alla liturgia, allo spirituale, mettendo tra parentesi, ad esempio, il problema dei diritti umani».
Politica: «La politica oggi è sostanzialmente gestione del potere, e meno proposizione di grandi ideali o apertura di prospettive rivoluzionarie. Ma bisogna ammettere che la classe politica cilena ha prodotto un piccolo capolavoro nella transizione in fondo incruenta tra la dittatura di Pinochet e l’attuale situazione di ritrovata, piena democrazia. Questo cambiamento è stato operato sostanzialmente dalla politica stessa, mentre la Chiesa era presente ma sul fondo della scena. Oggi c’è una nuova generazione di politici che sanno coniugare il “micro” e il “macro” (come direbbe Ulrich Beck), il pubblico e il privato, in certo modo con un approccio più maturo alla modernità, che non viene né esaltata né demonizzata. La transizione nei partiti non è comunque naturalmente acquisita. Anzi, direi che è difficile, perché non vogliono mollare la presa non solo coloro che hanno fatto la transizione ma anche coloro che, invischiati con la dittatura, sono tornati in forze, pur avendo fatto un solido e profondo esame di coscienza. I giovani politici, comunque, stanno rivalutando il locale: è più difficile vincere le elezioni da sindaco che quelle per un posto in Parlamento».
Il Cile e l’America Latina nel suo complesso: «In fondo il Cile è il Paese che meno ha condiviso le prospettive di unità del continente latinoamericano. Questo perché il Cile è storicamente un Paese “diverso” a cominciare dalla sua peculiarità geografica assolutamente unica. C’è quindi molta strada da fare, perché i politici cileni, e in misura minore tutti i cileni, disprezzano in certo modo la politica del pan-americanismo degli altri sudamericani. Prendiamo il problema delle differenze sociali: i cileni si sono sempre vantati di non avere gli enormi gap tra ricchi e poveri di Brasile, Colombia e anche Argentina. Va bene, però poco alla volta queste differenze si sono acuite e ci si è accorti che qualcosa non andava più: una delle polemiche politiche più virulente degli ultimi tempi è stata… la puzza nella metropolitana di Santiago! In fondo il cileno deve ancora “assumere” la propria vergogna: è un popolo meticcio! Le attuali polemiche contro l’immigrazione peruviana e andina in genere ne è una grande cartina al tornasole. Dobbiamo riconciliarci col nostro lato “latino”: noi cileni abbiamo in effetti una grande difficoltà a metterci in relazione con la nostra storia».
Mass media: «Il mercato in fondo è molto piccolo. Solo il 18 per cento dei cieli legge giornali, riviste o libri! La tradizione è sostanzialmente legata agli Usa piuttosto che all’Europa. Qui, ad esempio, le radio comunitarie non esistono, e c’è un duopolio nella stampa tra destra e centro-destra, con una quasi totale assenza della sinistra. Non c’è massa critica sufficiente. E gli studi sulla comunicazione sono quasi nulli, appiattiti solo sui problemi dell’audience».

1 commento:

maria chiara ha detto...

grazie per questa finestra sul mondo, con qualcosa di diverso da un articolo di giornale, che ci dai.
buon lavoro,
maria chiara