giovedì 2 luglio 2009

Diario di viaggio in Cile/2

27 dicembre 2008


Attorno al Palacio de la Moneda
È dall’altra collina della capitale, il Cerro Santa Lucia, che inizia l’avvicinamento al centro storico della città. Una collina alta solo un centinaio di metri, che per secoli era stata lasciata all’abbandono, quasi come un tumore, un ricettacolo d’ogni sorta di sozzura e delinquenza, finché un pietoso presidente non decise di renderla un giardino gradevole, appagante, rinfrescante. Così creò terrazze e terrazzamenti, passaggi e sentieri, citazioni giardiniere del mondo intero, vi organizzò un incredibile orto botanico che solerti commando di giardinieri innaffiano abbondantemente, provocando docce a cui i visitatori faticano non poco a sfuggire… Dall’alto del pinnacolo, una sorta di torre d’un castello medievale o coloniale, chissà, pare di toccare con le mani i grattacieli e i palazzi neoclassici, così come i pochi edifici coloniali che hanno resistito ai tanti terremoti che in questa zona colpiscono cose e gente. L’ultimo, rovinoso, data al 1985. Ma quel che più colpisce nell’ascesa e nella discesa dal Cerro Santa Lucia sono le fantasiose e originalissime scale che permettono di raggiungere la cima con percorsi assurdi, quasi verticali o quasi orizzontali, di sbieco o in diretta, aerei o incassati nella roccia. E non c’è un solo gradino uguale all’altro, nemmeno nelle scalinate neocoloniali che permettono di superare la prima balza, rinfrescata da fontane che paiono miracolose, anch’esse congiurate con la brezza per aspergere, quasi una benedizione per l’ascesa, il viandante. Ogni gradino pare il frutto del caso e dell’artigiano che è in ogni uomo. E questo fa la bellezza del luogo.
La discesa nel vasto centro storico è un alternarsi di buone sorprese e di cocenti delusioni. Edifici di una certa bellezza s’alternano a veri e propri obbrobri che meriterebbero solo d’essere abbattuti. Il vecchio (l’antico non esiste) e il nuovo s’aggrovigliano e si sovrappongono senza una vera e propria logica. Finché non capisco che vano è l’esercizio di cercare il bello senza vedere il brutto. Meglio, molto meglio, percorrere le vie e le piazze del centro, soprattutto quelle generosamente vietate alle auto, cercando di cogliere la “cifra antropologica” della città, che è quella indiscutibile della fierezza cilena. Fierezza che sta nella sua posizione geografica e nella sua cultura plurima e plurimillenaria, frutto della quale è il meticciato assoluto della popolazione. È fantastico coglierne le frammistioni e le sovrascritture genetiche, nonostante i cileni in qualche modo vogliano misconoscere questa loro peculiarità. Forse per marcare la loro altera differenza rispetto al resto dell’America Latina. Invano, perché è proprio nell’irriducibile meticciato che sta la sua bellezza e la sua grandezza. I cileni fanno fatica a inserirsi razionalmente nel corso secolare e millenario della Storia. Che vorrebbero riscrivere a loro piacimento.
Lo si capisce con la mente al Museo chileno de arte precolobino – discreto e meraviglioso nella sua ricchezza, circa cento tradizioni culturali censite e illustrate con reperti impareggiabili –; lo si intuisce con l’anima nella preghiera assorta e colorata della gente nella Cattedrale, che dà sulla magnifica Plaza de Armas; lo si respira molto più direttamente nel mercato che si estende a nord del centro storico, ampia zona che separa i quartieri della ricchezza da quelli della povertà, dove il naturale meticciato latino-americano si confronta con quelli nuovi provenienti da lontano, da un altrove radicalmente diverso, d’oltre il Pacifico, d’oltre l’Atlantico, persino dalla Palestina… Naturale è la fine della visita al centro della capitale cilena al Palacio de la Moneda, che nell’immaginario collettivo è indissolubilmente legato al ricordo di Salvador Allende e della sua morte, e a quello di Pinochet e della sua brutale gestione del potere. Mentre la gente pronuncia senza difficoltà il nome di Allende, fatica non poco a pronunciare le tre sillabe francesizzanti di Pinochet, preferendo di gran lunga la definizione di dittatore, magari con la maiuscola, dipende dalle sensibilità politiche.
Il resto – San Francisco, non poco scura e irriducibilmente coloniale, il quartierino Parigi-Londra, copia in scala di qualche rue e qualche street, l’apparire improvviso d’un quartiere di piccola delinquenza e a luci rosse (o piuttosto rosa, qui l’esposizione delle carni è pudica, meno male), il grumo di case attorno alla “nave” di Pablo Neruda, capelli rasta e birra a volontà e perdita di tempo scientemente voluta –, il resto è corollario al meticciato di questa città che ha voluto avere la sua grandeur ma che vive invece delle sue piccolezze, dei suoi dettagli, della petitesse della propria posizione geografica e culturale. Orgogliosa Santiago!




28 dicembre 2008



La città dove Neruda creava
S’arriva a Valparaiso da una sorta di altipiano, d’improvviso: si scorge sulla cresta del rilievo una esile teoria di abitazioni colorate e d’improvviso si scende per delle piccole valli che scendono verso il mare, sui cui lati s’ergono abitazioni che da subito appaiono più folli di quanto non ci si possa immaginare. Il disordine urbanistico pare assolutamente imperante, e così la qualità delle singole costruzioni, i materiali di cui sono fatte, l’esposizione, l’arditezza, la conformazione dei “grumi” abitativi: a Valparaiso le case poggiano le une sulle altre.
L’approccio, insomma, non è da poco, ed è capace di stimolare la curiosità in modo a dir poco stressante. Curiosità ampiamente frustrata allorché s’arriva al lungomare, pardon, al lungoceano, in cui s’allineano costruzioni contemporanee orripilanti – tra cui il Parlamento, che Pinochet h trasportato quaggiù per equilibrare il peso di Santiago nella geopolitica interna cilena –, rari residui di architettura coloniale e più modesti edifici del secolo XIX. La rinascita inizia alla Placa Sotomayor, finora unico accesso al mare per i porteñi, gli abitanti di Valparaiso. Il porto apre sui colori dei container e poi su quelli dell’abitato che s’abbarbica sulle dorsali della costa, i cerro, che paiono rivestiti minuziosamente da una vena censoria, nel senso che la nuda terra non deve nemmeno far capolino tra le singole abitazioni. È piuttosto un mosaico quello che si para dinanzi al visitatore dalle acque mosse e sufficientemente sporche del Pacifico. Un mosaico dai colori sfacciati. Un mosaico immenso, che in qualche modo incute timore e lascia un dubbio: da dove abbordarlo? Dove trovare il giusto approccio alla montagna colorata?
Lascio il monumento ai caduti nella battaglia navale di Ilquique, ricordata e festeggiata dai cileni come fosse stata una vittoria, mentre era stata una cocente sconfitta navale: il mio accompagnatore, Tomás, medico della Marina militare, mi fa visitare la cripta del monumento, che ospita le spoglie degli eroi, cripta visitata tre giorni fa dalla “presidenta”, Michelle Bachélét. Lascio il palco spumeggiante di suoni delle Giornate della cultura cilene, senza nessun rimpianto. Lascio la sede de Il Mercurio, il primo dei tanti quotidiani della catena mediatica della famiglia Edwards, col suo dio svettante su un palazzo con qualche inflessione liberty. Lascio il breve spazio piano della città. Il mio anfitrione s’arrampica con la sua auto su per una rampa che a prima vista ritengo essere nient’altro che un vicolo cieco, quasi un parcheggio. No, le pareti colorate celano un angusto passaggio, e poi un altro, tra murales e finestre scrostate, tra lamiere sgargianti e muri diroccati ma colorati. Arriviamo a quello che appare un piccolo borgo multicolore, arroccato attorno alle guglie lignee d’una cappella luterana e d’una anglicana (le sole presenze ecumeniche in una città che, come il Cile, è al 90 per cento cattolico). Le strade parallele alla costa s’intersecano con quelle che scendono all’oceano con pendenze da brivido. S’allineano abitazioni lignee e in muratura, in lamiera e in cartone con la sola costanza della pigmentazione sfrontata; al punto che si creano cortocircuiti visivi, associazioni drammatiche e svenevoli, paradisiache e quasi spirituali. Il breve paseo Gervasoni conduce ad un minuscolo hotel giallo canarino sospeso nel vuoto, l’Hotel Brighton, con la sua terrazza colma d’avventori d’ogni dove e anch’essi d’ogni pigmentazione epidermica. Un curtado, un caffè ristretto, qui è bevanda di elezione, è terapia di condivisione. Valparaiso è popolata di gente diversa dai cileni considerati normali, cioè quelli che vivono per lavorare e non lavorano per vivere. Qui si sa vivere, anche se i bohemien e i rasta paiono piuttosto “vissuti”, vecchi prima ancora d’invecchiare per l’anagrafe.
Scendiamo, poi risaliamo, a piedi questa volta, per un’erta ancor più impossibile della precedente, tra due ali di murales avvolgenti, un vero e proprio museo all’aria aperta, come un arco di metallo sembra voler indicare. Museo sono persino i tombini colorati, così come le bocche dei pompieri, le ringhiere, i marciapiedi… Poi, su su, al culmine della salita, là dove l’orografia concede un breve pausa al viandante in crisi cardiaca – il caldo sta arrivando ad ampie falcate, lui – sta un teatrino, il Teatro Pinto, sul cui lato occidentale è appoggiata la costruzione indubbiamente più originale dell’originale Valparaiso. La Sebastiana, «la casa en el aire». È la terza abitazione del grande Pablo, Pablo Neruda, politico e poeta e viaggiatore e collezionista ed enciclopedico e sognatore onirico e dispensatore di amore spirituale e fisico. E altro ancora. Non descrivo la casa abbarbicata su sé stessa e aperta, anzi spalancata all’oceano («troppo grande per essere detto») e al mare di case («Mare di Valparaiso, onda/ di luce solitaria e notturna,/ finestra sull’oceano/ in cui s’affaccia/ la statua della mia patria/ che vede con occhi tuttora ciechi»). È vita pulsante, ancor oggi, poesia e prosa insieme («E il vento./ Il vento batteva/ la terra, le radici»). È un puzzle che potrebbe essere kitsch e che invece assurge a cappella votiva della creatività, paratia modesta di quella «snella nave» che è il Cile di Neruda.
Mi restano da fare due esperienza essenziali per chi vuol conoscere Valparaiso: innanzitutto quella dell’ascensore, uno dei sette che paiono atti di misericordia collettivi per chi fatica a restare un promeneur, per i più diversi motivi. Prendo quello sopra il porto, chiamato Ascensor Artilleria. Non rassicura l’esilità della costruzione lignea che sorregge le rotaie, e nemmeno la scrostata e sozza cabina che dovrebbe essere trascinata verso l’alto da due cavi che, questo sì, paiono ben ingrassati e rinnovati. Meno male. Uno sbuffo di energia, uno scossone che sembra non poter vincere la forza di gravita, un secondo, un terzo e ci si muove verso la verticalità, mentre i discoli dallo sguardo poco chiaro s’aggrappano ai bordi dei finestrini per poter ammirare le visioni marine e terrene. Due barboni stendono i loro bagagli lerci sulle due panche, impedendo di fatto di poterle usare. Il suono d’una campanella tisica ci accompagna verso il traguardo. I piccoli chioschi turistici stonano lassù, ai piedi della bianchissima costruzione coloniale di quella che fu l’Accademia navale del fiero Cile. Orgoglioso e altero, sprezzante. Per complesso d’inferiorità.
Altra esperienza, quella del mare, di veder Valparaiso dal mare. Lo faccio dall’Esmeralda, un veliero a quattro alberi possente e tirato a lucido – è scuola per allievi ufficiali di Marina –, che staziona accanto a corvette e fregate della Marina da guerra, e a enormi cargo che scaricano container targati Germania e Danimarca e Hong Kong e Dubai. Stona e nel contempo dà senso quel fasciame di legname che galleggia. Assuefatto alla frenesia cromatica dell’abitato, anche sul veliero cerco pigmentazioni vivaci. Le trovo qua e là, verdi e rossi e gialli. E allora l’esperienza di Valparaiso si compie, nella liturgia della bellezza. Un pranzo di pesce – mal cotto e mal servito – non fa cadere dal mio sguardo le scaglie di madreperla dai mille riflessi. E il ritorno per Viña del Mar, una qualsiasi Riccione ma sull’oceano, non mi impedisce la digestione.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Soltanto ho potuto dar un'occhiata ma bello 'nel mondo dei blog'... m'immergeró piú profondamente appena ne avró piú tempo di adesso e poi, ti racconto.
Un salutone oltreoceano!!
Ana C (Spagna, adesso nel foc. Tucumán)

Anonimo ha detto...

Perche non:)

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)