martedì 7 luglio 2009

Sangue a Ürümqi

Capodanno 2008. Pecore ammazzate in un mercato della capitale dello Xinjiang. Sotto la cenere l'insoddisfazione degli uyguri. Forse la rivolta.


Non distante dalla piazza centrale della città, dalla grande e imponente moschea presidiata dai soldati cinesi, vengo attirato da un movimento improvviso della folla, scomposto, e da un improvviso clamore indistinto. Mi avvicino, è un mercatino dove si vendono i montoni che ancora non sono stati venduti per la festa dell’Eid, qui chiamata Kurbah.





Marchiati da una pennellata rosa funesta, greggi trattenute dai pastori paiono terrorizzate dalle grida degli animali che vengono sgozzati sul posto, su un terrapieno in cui si mescolano giaccio, terra e residui della lavorazione della macelleria ambulante. In una grossa terrina cola il sangue dalle gole squarciate di tre o quattro pecore che ancora scalciano mentre la vita sfugge loro dalle vene recise.




Il rosso intenso del sangue pare raggelarsi e sbiadire, mentre il liquido fumante si coagula, e disegna sinistre ellissi d’emoglobina. Accanto a questa scena macabra, un uyguro corpulento e baffuto squoia le povere bestie ancora calde, getta il pellame in un mucchio candido striato qua e là di rosso, appende le carni ricomposte a grossi ganci anneriti di ruggine e depone testa e corna in un lercio carretto.




Tutt’attorno giungono gli avventori a scegliere le loro vittime, prima che siano sottoposte al ciclo della macellazione. Gli allevatori infilano mazzette di banconote insanguinate nelle loro tasche più profonde nei loro pastrani lerci e consunti. Nell’aria c’è violenza e c’è naturalezza. La vita degli allevatori è questa. Allevatori uyguri, musulmani, che vengono dalle campagne povere dello Xinjiang, che patiscono un'imperfetta "armonia sociale" alla cinese.


Sono queste bestie che una volta bollite adeguatamente in acqua e sale, con l’aggiunta di poche spezie, prenderanno dimora provvisoria sulle tavole imbandite dei musulmani, dove saranno gustati pezzo a pezzo da parenti, amici e conoscenti, sbocconcellati alternativamente ai filamenti delle enormi trecce zuccherate che sono il panettone dello Xinjiang. Una volta venivano messe fritte e messe poi al forno in ogni famiglia, ma oggi questi dolci è più comodo comprarli già nei supermercati.

Sulla tavola imbandita, montone e treccia sono circondati da pistacchi, mandorle salate, arachidi arrostite, mandorle dolci, mandarini e mele, dolci e frittelle d’ogni tipo, fichi secchi, ciambelle, caramelle e cioccolatini, creme e va passa, la specialità della regione, marmellate e pani vari, biscotti. Per tre giorni si fa festa attorno a queste tavole, simili nelle diverse case, in una convivialità che unisce etnie e religioni diverse, ricchi e poveri, credenti e atei. La tradizione attorno a queste tavole imbandite è il simbolo di una terra che, pur cntando tredici etnie, sette paesi confinanti, una dozzina di lingue diverse e otto religioni, ha saputo mantenere una sua convivenza. Che la Cina intera rispetta e in fondo anche ammira, finché non esplode per gli eccessi di un regime di polizia.


























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