In una recente conferenza pubblica a Bellaria, m’è stata posta una domanda: «Prevalgono nei media il pessimismo e la rassegnazione. Che effetto potrebbe avere invece la divulgazione di notizie dal forte contenuto positivo?».
Effettivamente, ho risposto, il meccanismo dell’audience, spinto alle sue estreme conseguenze in tempi di crisi delle inserzioni pubblicitaria e di abbandono progressivo della tv generalista, provoca il trionfo dello scandalismo (oggi la mania degli anglicismi parla di gossip), della drammatizzazione delle notizie, della spettacolarizzazione di tutto, anche del dolore. La “legge delle quattro esse”, cioè sangue, soldi, sesso e salute (con la riserva più positiva di una quinta esse, quella dello sport) domina su tutti gli schermi, e anche sulla carta. C’è da dire che è immensamente più facile scrivere o girare una notizia scandalistica o drammatica: di solito le notizie positive non hanno lo stesso impatto immediato, non creano il medesimo pathos, bucano meno lo schermo. E vista la progressiva accelerazione della richiesta di notizie, ecco che i poveri colleghi preferiscono per pochi euro sfornare notizie a getto continuo non proprio positive. E quelle che vorrebbero essere tali, il più delle volte sono frutto delle pressanti richieste di chi ha il potere in mano. Basta analizzare un tiggì per costatarlo. Tuttavia, di fronte alle richieste che salgono dalle platee virtuali e reali di mezzo mondo, o di tutto il mondo, media anche importanti – CNN in testa – qualche spazio alle buone notizie lo lasciano, magari relegati in pagine interne o in fasce orarie improbabili. Non vengono impiegate molte energie, ma qualche sforzo va segnalato e incoraggiato.
Il fatto è, però, che noi stessi giornalisti siamo impreparati a questo compito: le scuole di giornalismo non contemplano di solito materie come “tecnica della buona notizia” o “fenomenologia delle good news”. E così tanti colleghi si ritrovano non solo a far fatica a trovare della “cronaca bianca”, come viene anche chiamata questa branca negletta del giornalismo, in opposizione a quella nera, ma addirittura non sanno bene che cosa sia una “buona notizia”. Un servizio pubblico che funziona lo è? Un aborto evitato? Una scoperta scientifica che permette di curare una malattia prima incurabile? Un imprenditore che non paga il pizzo? Un politico che evita di firmare una legge che lo avvantaggia? Una pena di morte non eseguita? E via dicendo.
Di per sé tutte queste sono buone notizie, e ritengo lo siano per la stragrande maggioranza dei giornalisti. Ma come raccontarle? Ho la fortuna di dirigere Città nuova, una rivista specializzata in buone notizie, ma anche in cattive notizie raccontate con spirito costruttivo, mai distruttivo. Ebbene, vi assicuro che gli sforzi che mettiamo in atto per essere credibili non sono da poco. Serve tempo, fantasia e costanza. Ma alla fine ci si riesce. Proporrei perciò di istituire nei corsi di giornalismo un corso intitolato “Storia e tecnica del giornalismo in positivo”. Vediamo se qualche decano mi ascolterà.
(pubblicato sul sito di NetOne, il 6 maggio 2009)
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