giovedì 9 luglio 2009

Xinjiang, l'Islam hui di Ma An Tai



A Urumqi nel gennaio 2008 ho incontrato un imam cinese al 100 per cento. La tradizione hui è spesso in contrasto con quella degli uyguri. In questi giorni le differenze sono esplose. Le parole di dialogo dell'imam Ma An Tai erano sincere, e non volevano mettere il dito sulle tensioni che pur esistevano con gli uyguri. Problemi, come si costata in questi giorni, soprattutto etniche e politiche, molto meno religiose.





Vicino alla chiesa cattolica c’è una delle moschee più originali che abbia mai visto: sembra un tempio buddhista, o più ancora confuciano. L’architettura delle costruzioni che formano un cortile – la più antica, la moschea vera e propria sembra avere poco più di due secoli – è assolutamente non differenziabile da altri luoghi di culto delle varie religioni cinesi, se non fosse per la modestissima mezzaluna che si nota sul tetto, sullo sfondo di una serie di recentissimi grattacieli che sembrano far corona (o minacciare, dipende dai punti di vista) l’insieme del complesso della moschea.



Questo luogo di culto, in effetti, appartiene alla denomnazione musulmana “più cinese” che esista, quella degli hui, musulmani rimasti per secoli fedeli al Corano e al Profeta, ma anche alle leggi prima dell’impero e poi della repubblica cinesi.
Accanto all moschea, c’è la scuola coranica per i bambini e l’abitazione dell’imam riconosciuto da tutti, l’anziano Ma An Tai, settantaseienne, presidente della Chinese Muslim Association, che parrebbe un Confucio reincarnato, anche nell’aspetto semplice, dimesso, dalla barbetta cilindrica piccola e ben curata sotto il mento.



Ci accoglie con grande cordialità, anche senza capire bene chi sono e cosa voglia. Si parla della sua famiglia, dei due figli e delle due figlie, della mia profession, della festa dell’Eid, e si sbocconcella la solta treccia della festa assieme a pistacchi e mandorle. Uno dei suoi figli s’accomoda accanto a noi, giovane e attento, scruta ogni nostro movimento. Quando gli chiedo un’intervista me la concede subito, ma non dinanzi alle telecamere: «Per questo deve chiedere il permesso al governo», mi spiega. È fermo nella sua decisione, anche se accetta di farsi riprendere a microfono spento dalla telecamera.

Mi presenti la sua comunità musulmana.
«Sono 10 milioni i musulmani nello Xinjiang, la maggior parte nel sud della regione, in particolare attorno a Khasgar, accanto al Pakistan. Ma anche qui a Ürümqi la comunità non è piccola, contando circa mezzo milione di persone, la metà della quale della tradizione hui. Sono circa dieci le diverse tradizioni musulmane presenti nel Paese sotanzialmente parallele alle diverse etnie che lo popolano».

Quali sono le relazione con gli altri gruppi etnici del Xinjiang che si riconoscono nell’Islam?
«Le culture e le origini di questi gruppi sono diverse, ma tutti crediamo nell’Islam, nel Profeta, nell’Unico Dio. È questo il collante, e nessun altro. Siamo diversi ma ci rispettiamo e collaboriamo insieme. Ci si rispetta nelle diversità, e quindi non c’è ragione per scatenare conflitti particolari. La pace, natura dell’Islam, ci unisce, e così anche le leggi della Cina, che ci obbligano a considerarci tutti eguali, e quindi ad evitare inutili discussioni su chi è il migliore».

E i rapporti coi cristiani?
«Certamente abbiamo molte differenze, sia religiose che culturali, ma conflitti evidenti non ci sono, e nemmeno sotterranei, credo. Conosco ad esempio il vescovo cattolico, mons. Xie Ting Zhe e ci vogliamo sinceramente un gran bene. Pochi giorni fa abbiamo dato testimonianza comune dell’armonia che ci lega nel corso di un’affollata conferenza».

Lo sviluppo economico che anche qui sifa sentire, che influssi ha sulla fede dei musulmani, e dei credenti in genere?
«Certamente l’influsso è positivo. Pensi solo al fatto che nella contea di Ürümqi ci sono ben 3 mila moschee. Lo sviluppo economico ci ha permesso di ristrutturarle, di abbellirle, di ingrandirle. E così tanta gente viene più volentieri a pregare. La stessa cosa penso valga per le altre religioni, per il buddhismo e il cristianesimo in particolare».

Cosa risponde a coloro che dicono che l’Islam porta al terrorismo, alla violenza e alla sopraffazione?
«Dico semplicemente che tutte le religioni, e certamente anche l’Islam, sono contro ogni forma di violenza e in particolare contro il terrorismo. Nessuna religione è contro la vita, tanto meno l’Islam. I comandamenti dell’Islam sono chiari a questo proposito: non si può iuccidere e uccidersi, se non per motivi estremamente gravi. Il terrorismo usa i segni della religione, ma non è religione».

Quali sono le relazioni con musulmani dei Paesi confinanti, nei quali spesso s’è infiltrato il fondamentalismo?
«Quasi nessuno. Noi siamo cinesi e musulmani, e questo ci basta. Certo, siamo solidali con tutti i musulmani del mondo, ma noi rispettiamo le leggi dello Stato».

Che cosa pensa dela shari’a?
«Non c’è contrasto tra la società islamica e le leggi dello Stato. Possiamo usare i principi del Corano e della shari’a per gestire la comunità islamica e i raporti tra i suoi membri, ma qualora si apra un conflitto con le leggi dello Stato, ovviamente ueste ultime prevalgono. Ma i contrasti sono veramente pochi, gliel’assicuro».

È un msulmano felice, imam An Tai?
«È il periodo migliore della vita dei musulmani in Cina, senza dubbio. La politica sta aiutando lo sviluppo della religione. Ad esempio, quest’anno 3200 musulmani dello Xinjiang hanno potuto recarsi alla Mecca, cosa impensabile solo alcuni anniaddietro».

Un desiderio?
«Quello di poter svilupparsi come gruppi religiosi, anche di religioni diverse, e di vivere insieme nella libertà, in accodo con le leggi dello Stat. Un grande avvenire è dinanzi a noi, allora».

Usciamo con l’imam proprio quando decine di membri della sua comunità stanno avviandosi verso la moschea. L’imam ci concede di riprendere alcuni momenti della orazione comunitaria. Salutandomi, mi bacia e mi augura «un futuro di pace nella memoria del profeta Gesù Cristo». Scusate se è poco.








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