Diario di viaggio in Cile/3 (fine)

29 dicembre 2008

Jaime Carril
Non so che cosa non faccia Jaime Carrill, un uomo sulla quarantina che ha le mani in pasta in mille progetti di comunicazione in Cile, sia in campo ecclesiale che civile. Sta terminando un dottorato a Barcellona, e nel contempo insegna in tre università di Santiago del Cile, e promuove iniziative «per una comunicazione più umana e sostenibile», come mi dice. Ad esempio è l’ispiratore di “Vida buena”, un’iniziativa che vuole promuovere »valori e virtù nella società cilena». Ha promosso una campagna pubblicitaria (gratuita) nelle principali reti televisive cilene, ed ora è impegnata a fondo nella promozione dell’edu-comunicazione in molte scuole cilene. Inoltre sta lavorando con alcuni municipi che hanno finanziamenti statali per «una comunicazione civile che vada incontro ai bisogni reali della gente». Infine, ha promosso “Lasal”, una rete, una catena di studiosi della comunicazione cileni che pensano che non ci si debba isolare dal resto dell’America Latina, ma che al contrario si debba favorire una progressiva integrazione.
«Il nostro modello di comunicazione – mi spiega – è chiaramente nord-americano. Anche la tv pubblica fa il verso a quella degli Stati Uniti. E il “verbo” della comunicazione cilena è il libero mercato. Così come accade in tutti gli ambiti della società. Ma ora il digitale terrestre sembra poter introdurre una variabile più equa e positiva. Nel campo della stampa, poi, bisogna dire che il mercato è asfittico: una rivista che vende 12 mila copie è un gran successo. In ogni caso nella società cilena c’è poco pluralismo, e questo limita molto la capacità della società di progredire. Il concentramento mediatico nelle mani di pochi, infine, prospetta un futuro fosco per la comunicazione cilena: Piñero, proprietario di Canale 11, rischia di diventare il Berlusconi cileno. Anche Canale 9 è in mano ai politici. E la tivù cattolica è finita in mano ai politici della destra, e la stessa tivù nazionale è estremamente corporativa. Una tivù d’élite, insomma, che ha una visione caricaturale degli esclusi. Negli anni Settanta la società era molto più integrata di quanto non lo sia ora». E con i nuovi media? «La situazione rischia di essere addirittura peggiore, come testimonia ad esempio l’altissimo costo delle connessioni Internet, da cui sono fatalmente escluse le popolazioni più povere. Il digital divide cileno è tra i più gravi al mondo».

Jaime ha una forte esperienza in campo ecclesiale: «La Chiesa cilena ha una quantità di progetti in favore delle fasce meno favorite della popolazione, ma la logica che le guida è troppo spesso di elemosina, non di giustizia. E questo è un vulnus dell’aiuto che pur viene data a tanti. È lo stesso fenomeno di esclusione che porta il 30 per cento dei giovani cileni a non essersi mai iscritto alle liste elettorali, e che porta quasi il 40 per cento della popolazione (una percentuale assolutamente incredibile) a far uso di ansiolitici per sopportare una vita estremamente competitiva e stressante. La gente non è felice, perché le pretese messe sulle spalle di giovani e adulti sono tali che non si riesce a sopportarli facilmente, senza mezzi chimici di aiuto».

Santiago Sud
Quanto ho sentito e capito in questi giorni a proposito del disequilibrio del sistema politico e sociale del Cile lo costato, almeno un po’, in una visita che faccio ad alcune opere sociali. Mi accompagna un giovane studioso di comunicazione ed esperto informatico, Rodrigo, che svolge anch’egli diversi lavori, tutti al servizio della diocesi di Santiago. È un entusiasta, un catartico, una persona che crede che il meglio finisca sempre per accadere.

Lo espejo
Il primo progetto si trova a Lo espejo, lo specchio, un sobborgo nella periferia meridionale della capitale, che ospita il grande mercato all’ingrosso del pesce della capitale (odori compresi!), cui si giunge dopo un’ora di macchina dal centro, e dopo essere passati attraverso abitati via via degradanti come ricchezza, come manutenzione, come bellezza. I grattacieli lasciano lo spazio al palazzo, il palazzo alla casa, la casa alla catapecchia, la catapecchia alla baracca. E alla polvere onnipresente. Il progetto vuole portare i bambini del barrio a usare il computer e Internet. Per questo nella parrocchia – in realtà una cappella di legno dipinta di blu e immersa in un contesto urbano degradato, a metà industriale e a metà abitativo – è stata installata una antenna che permette di connettersi a Internet, seppur a velocità ridotta, nel raggio di un paio di chilometri. I bambini sono in vacanza, e quindi si presentano solo tre donne e un giovane uomo, che mi spiegano sommariamente il progetto. Poi mi fanno visitare la sala dei computer: sono 15, diligentemente ricoperti di plastica nera, per proteggerli dalla polvere che s’intrufola dappertutto in questa periferia desolata di Santiago. Il servizio, gratuiti per i bambini, è a pagamento per gli adulti, 100 pesos all’ora, circa 15 centesimi, che qui sono comunque una somma non indifferente. Gli insegnanti sono tutti studenti universitari volontari, dai 22 ai 17 anni. Il progetto cerca di favorire anche la crescita di “leader di comunità”, che possano in qualche modo prendere in mano lo sviluppo del loro quartiere, e non solo della loro parrocchia. E si cerca, ovviamente, di non dimenticare minimamente le famiglie dei bambini, con programmi espressamente dedicati a loro. Posso solo dire che le persone che mi accolgono paiono motivate.

E sono sempre loro che mi portano a visitare un centro per il recupero di tossicomani, promosso e gestito da una signora sulla sessantina che aveva perso un figlio, assassinato nel quartiere, e che in sua memoria ha deciso di mettersi al servizio dei più deboli della comunità. Non posso capire che metodo pedagogico usino – mi sembra estremamente rozzo –, né se la gente riesca poi a riabilitarsi. C’è una forte frammistione con la sinistra politica, tanto che il centro si chiama “Gesù di Nazareth-Resistencia”.

San Miguel
Passiamo poi, con mezz’ora d’auto, alla visita di un altro progetto, a San Miguel, un barrio certamente meno misero del precedente, e tuttavia assai povero. Si alternano commerci e abitazioni, alcuni mantenuti dignitosamente, altri lamentevolmente in stato di abbandono o quasi. Qui la fondazione ha finanziato l’apprendimento di informatica da parte di alcune madri di famiglia che hanno poi aperto un Internet Point che funziona egregiamente. E contemporaneamente loro stesse si sono trasformate in insegnanti di informatica per le donne del quartiere, ma anche per chiunque voglia istruirsi nel campo. Sono cattoliche, Maritza e Rosita, e ci tengono a dirlo. Hanno una buona comunicativa, una simpatia debordante e una competenza certamente crescente. La pulizia del locale è perfetta, e le ragazze che entrano per connettersi alla Rete paiono conformarsi allo stile del locale. «Eravamo molto emozionate all’inizio – mi spiegano –, perché d’improvviso ci siamo rese conto che potevamo essere protagoniste della nostra vita, non solo delle donnette di casa obbligate a tirar su i figli e a far da mangiare al marito senza nessuna prospettiva migliore. Abbiamo potuto addirittura mettere su la nostra piccola azienda e contribuire così ai bisogni familiari. Eravamo così prese, all’inizio, che durante le lezioni del sabato ci dimenticavamo persino di fare la spesa! Non era facile sottrarre del tempo alle normali attività domestiche, resistendo tra l’altro alle proteste dei nostri mariti, sorpresi dalle nostre energie e dalla nostra determinazione». C’era una clausola nel progetto: che le donne diventassero a loro volta insegnanti. Cosa che è puntualmente avvenuta. «Molti giovani vengono qui in periodo scolastico per le loro ricerche, e non di rado siamo noi ad aiutarli, ad indirizzarli verso la giusta direzione. Alcuni di loro hanno dovuto e devono ancora resistere alle resistenze delle madri, che vedono nell’informatica qualcosa che sottrae loro i loro figli… Fatale e naturale è collaborare ai progetti di solidarietà della parrocchia: attraverso questo Inernet Point, in effetti veniamo a conoscenza di non pochi casi umani anche gravi, per cui è naturale per noi rendere loro visita e capire come possiamo aiutarli, sia come parrocchia che come azienda. Con questo progetto aumenta nelle donne l’autostima, il coraggio, al qualità della vita e anche il loro lato spirituale. Un altro modo di entrare in contatto con gli adulti è attraverso i figli ai quali insegniamo l’informatica, o che l’apprendono a scuola: sono loro a diventare maestri dei genitori e a mostrare loro un mondo che nemmeno sospettavano che esistesse, attraverso Internet». Queste due donne mi hanno conquistato. Mi hanno preso il cuore.